Se la caccia fosse un lavoro
Filippo Schillaci
Nel novembre 2001 l'allora responsabile regionale umbro delle guardie giurate del WWF Sauro Presenzini, all'indomani di una impressionante serie di incidenti di caccia con esito mortale verificatisi in quella regione denunciò fermamente la caccia come problema di ordine pubblico. Gli rispose, a sostegno delle posizioni dei cacciatori, l'assessore al bilancio del comune di Perugia, Fabio Faina, cacciatore egli stesso, dichiarando che i cacciatori: "non sparano all'impazzata ma seguono regole di comportamento estremamente precise" e che "la percentuale degli incidenti, rispetto al numero dei partecipanti alle battute, è irrisoria".[1] Queste dichiarazioni erano fatte con riferimento alla caccia al cinghiale e alla situazione umbra, tuttavia non c'è dubbio che egli intendesse dare a esse validità generale. Compito di questo articolo è quantificare la pretesa "irrisorietà" degli incidenti di caccia attraverso un confronto con un diverso contesto, quello degli incidenti sul lavoro, nonché confrontare il concetto di sicurezza e prevenzione quale è affrontato a livello legislativo nei due diversi contesti. 1. Definizione dell'attività venatoria dal punto di vista della sicurezza Cominciamo col dare una definizione dell'attività venatoria (la quale, notiamolo esplicitamente, per le circostanze in cui si svolge è cosa ben diversa dallo sport del tiro, sia a volo che a bersaglio fisso) osservata dal punto di vista della sicurezza. Essa in null'altro consiste che nel libero uso di armi da fuoco in luoghi non protetti, siano essi pubblici o privati. Notiamo a quest'ultimo proposito che la legislazione italiana (art. 842 C.C.) consente di svolgere tale attività perfino nelle altrui proprietà private a prescindere dal consenso del legittimo proprietario (cosa quest'ultima già da tempo condannata, con riferimento alla Francia, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo). Luoghi, in altre parole, in cui chiunque può trovarsi a transitare in qualsiasi momento. La sua principale e intrinseca caratteristica è pertanto la totale promiscuità di spazi con le altre attività umane, sia lavorative (agricoltura e silvicoltura innanzi tutto) che ludiche (turismo, escursionismo ecc.). Notiamo anche che coloro che esercitano tale attività, benché debbano superare a tale scopo appositi esami, null'altro possono essere considerati nell'uso delle armi da fuoco, che dei dilettanti. 2. Si muore più di caccia o di lavoro? Si farà riferimento nel seguito ai dati del 2001, in quanto sono i più recenti a nostra disposizione. In tale anno dunque si verificarono 1.366 incidenti mortali sul lavoro (fonte: INAIL) mentre il totale degli occupati era di 21.514.000 (fonte: ISTAT). Considerando 20 giornate lavorative di 8 ore al mese e 11 mesi lavorativi all'anno per ciascun lavoratore si ottiene un totale di 4.733.080.000 giornate lavorative effettuate. Nella stagione venatoria 2001/2002 vi sono stati 47 incidenti mortali di caccia (fonte: EURISPES) a fronte di un numero di cacciatori pari a 780.000 unità.[2] Il numero massimo di giornate di caccia disponibili (tre a settimana per 5 mesi) era di 66 per ciascun cacciatore. Ipotizzando che ciascuno di essi abbia sfruttato integralmente le giornate di caccia a sua disposizione, otteniamo un numero totale di giornate di caccia effettuate pari a 51.145.714. Al fine di poter effettuare un raffronto omogeneo dobbiamo ipotizzare però che giornata di caccia e giornata lavorativa abbiano l'identica durata di 8 ore, il che ci pare ipotesi non realistica. Essendo difficilmente quantificabile il dato "durata media della giornata di caccia" intendendo come tale il periodo di tempo che il cacciatore trascorre nel cosiddetto "atteggiamento di caccia" assumeremo l'ipotesi, che riteniamo non molto lontana dal vero, di una durata media di 4 ore. Pertanto assumeremo nel calcolo seguente l'equivalenza: 1 giornata lavorativa = 2 giornate di caccia. Detto ciò si ottiene che si ha un incidente mortale ogni 3.464.919 giornate lavorative e un incidente mortale ogni 544.186 giornate di caccia. Ne risulta, dal rapporto fra le due ultime cifre, che si muore di caccia 6.37 volte più frequentemente che sul lavoro. È necessario aggiungere qualche considerazione in merito all'ipotesi fatta sul numero di giornate di caccia, dato cruciale nel determinare il valore del risultato finale del calcolo e pertanto il modo in cui esso deve essere interpretato. Ci è stato fatto da più parti notare che tale ipotesi è irrealistica in quanto palesemente sovradimensionata rispetto alla realtà e che è ben più verosimile supporre che il numero di giornate di caccia settimanali per ciascun cacciatore non sia superiore a una o due. Questa obiezione è esatta.[3] Il che implica che dobbiamo realisticamente stimare un numero di giornate di caccia pari a uno o al più due terzi di quelle calcolate, non di più. Questa stima farebbe sì che il numero di vittime vada diviso per un numero minore di giornate di caccia, e avrebbe come conseguenza che la frequenza di incidenti mortali nella caccia risultasse ancora maggiore. Il valore di 6.37 sopra trovato del rapporto fra le frequenze di eventi mortali è pertanto da intendersi come una stima minimale e l'affermazione conclusiva del precedente capoverso va più realisticamente corretta affermando dunque che si muore di caccia almeno 6.37 volte più frequentemente che sul lavoro, fermo restando che il valore reale è da intendersi sensibilmente superiore. Quanto superiore? Non riteniamo necessario approfondire ulteriormente questi calcoli ritenendo il risultato raggiunto già di per sé sufficiente a giustificare le considerazioni seguenti. 3. Sicurezza e prevenzione nelle discipline del lavoro e dell'attività venatoria La storia della legislazione in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro comincia in Italia nel 1898 con una normativa che stabilisce per il datore di lavoro l'obbligo di stipulare una polizza assicurativa nei confronti del lavoratore. L'ottica in cui viene affrontata la questione era pertanto a quel tempo puramente risarcitoria. Era del tutto assente il concetto di prevenzione. La successiva evoluzione legislativa ha portato oggi a una regolamentazione costituita da un insieme piuttosto articolato di normative (non esiste a tutt'oggi un testo unico) la cui punta più avanzata è il D.L. 626/94, un lungo e dettagliato testo che definisce norme capillari e precise in materia e in particolare stabilisce, a carico di tutti i soggetti coinvolti, una serie di obblighi comportamentali atti a conseguire l'obiettivo della prevenzione. Prevenzione che è oggi, come nota Antonio Moccaldi, Direttore Generale dell'ISPESL, il concetto primario su cui si basa la vigente legislazione (e la conseguente azione) in materia di sicurezza sul lavoro. Del tutto superata è pertanto l'originaria ottica risarcitoria: prevenire il verificarsi dell'evento negativo piuttosto che concepirlo come fatalità, lasciare che accada e risarcire a posteriori il danno. L'art. 2 lettera g) del D.L. 626/94 definisce 'prevenzione' «il complesso delle disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell'attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno». Sottolineiamo esplicitamente l'attenzione estesa non soltanto all'ambiente lavorativo ma anche all'ambiente esterno a esso e in particolare alla popolazione. Su questo concetto torna l'art. 4 comma 5 lettera n) ponendolo come obbligo del datore di lavoro. È importante aggiungere inoltre che il D.L. 626/94 è stato riconosciuto successivamente (Art. 1 del D.L. 242/96) inadeguato alle 'particolari esigenze connesse al servizio espletato' nell'ambito di alcuni contesti lavorativi, fra cui quelli 'delle Forze armate e di polizia, (...) delle strutture giudiziarie, penitenziarie, di quelle (...) con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica'. Tali contesti era previsto nel predetto D.L. 242/96 che si dovessero regolamentare a parte mediante specifici Decreti Interministeriali. Ciò è stato fatto, alla data attuale (giugno 2003), fra i contesti sopra citati, solo per la Guardia di Finanza e per le strutture giudiziarie e penitenziarie, il che impedisce ogni ulteriore approfondimento in merito alla natura delle 'particolari esigenze' menzionate. Sottolineiamo comunque come si tratti di contesti che, per loro intrinseca natura, implicano l'uso di armi da fuoco in condizioni non a priori prevedibili e controllabili, esattamente come avviene nell'esercizio della caccia.[4] Soffermiamoci ora sul D.L. 626/94 ed esaminiamone gli elementi fondamentali. 1) L'obbligo di programmazione della prevenzione. Il datore di lavoro deve stabilire una scala di priorità degli interventi necessari a prevenire gli infortuni. 2) La identificazione delle procedure, ovvero mettere per iscritto attraverso quali procedure ciascuna impresa può essere messa in condizione di raggiungere accettabili condizioni di prevenzione. E' questo il cosiddetto Documento di valutazione dei rischi. 3) L'informazione. Ovunque esista una fonte di pericolo la sua presenza deve essere opportunamente evidenziata mediante segnaletica o etichettatura, l'una e l'altra a loro volta normate. 4) La formazione. Tutti i soggetti coinvolti devono periodicamente esservi sottoposti. 5) L'istituzione di figure specifiche rivolte al raggiungimento e alla tutela della prevenzione (Medico competente, Servizio di Prevenzione e Protezione, ecc.). 6) Estensione della sfera dei soggetti beneficiari del diritto alla sicurezza. La legge tutela non solo i lavoratori ma anche altri soggetti qualora riconosciuti esposti a rischio. La norma prevede in particolare tre categorie di funzioni fondamentali e all'interno di ciascuna di esse delle ben precise figure di riferimento, che riassumiamo nella seguente tabella: Funzioni Figure di riferimento Obblighi e responsabilità Datore di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori Consulenza, analisi, soluzioni Servizio di Prevenzione e Protezione e relativo Responsabile, Medico Competente Rappresentanza dei lavoratori Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza È superfluo qui addentrarsi nell'analisi dettagliata dei compiti attribuiti a ciascuna figura. Ci limitiamo a citarle per evidenziare come la legge concepisca l'attuazione della sicurezza attraverso la prevenzione quale attività continuativa, sistematica e organizzata, non solo attraverso l'attribuzione di compiti specifici ai vari soggetti coinvolti, ma anche attraverso la creazione di nuovi soggetti specificamente rivolti a questo compito. Alcuni punti è comunque opportuno sottolinearli. L'art. 2 lettera e) del D.L. 626/94 definisce il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione come 'persona (...) in possesso di attitudini e capacità adeguate'. A causa di ciò il D.L. 626/94 è ritenuto a livello europeo inadempiente rispetto alle Direttive comunitarie di cui costituisce recepimento in quanto per tale figura non sono definiti con precisione i requisiti, come invece è richiesto dalle Direttive stesse e come avviene, ad esempio, nella precedente lettera d) dello stesso articolo per la figura del medico competente. Vedremo in seguito il perché di questo rilievo. Il successivo art. 4 individua gli obblighi, fra gli altri, del datore di lavoro relativi alla prevenzione e alle misure di emergenza: «Il datore di lavoro, in relazione alla natura dell'attività (...) valuta, nella scelta delle attrezzature (...), nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari». Tali obblighi sono successivamente elencati in 13 punti, 5 dei quali relativi alle misure di emergenza. Inoltre, l'art. 22 prevede che il datore di lavoro provveda a fornire al lavoratore una formazione adeguata in materia di sicurezza e salute. I lavoratori incaricati di gestire le situazioni di emergenza devono ricevere una formazione specifica. Alle figure sopra elencate si aggiungono poi gli organismi di vigilanza esterni quali l'INAIL, l'Ispettorato del Lavoro, le ASL, nonché organismi di studio e consulenza quali l'ISPESL e la commissione consultiva permanente per la prevenzione degli infortuni e per l'igiene del lavoro. Per l'esattezza l'art. 24 comma 1 elenca un insieme di 8 organismi pubblici aventi fra i loro compiti quello di svolgere «attività di informazione, consulenza e assistenza in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro». L'art. 14 prevede che almeno una volta l'anno il datore di lavoro convochi una riunione periodica di aggiornamento cui devono partecipare anche i Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza i quali concorrono all'esame del documento di valutazione, compreso il metodo con cui certe valutazioni sono state tratte. Infine l'art. 8 comma 5 prevede uno specifico obbligo di organizzazione del servizio di prevenzione e protezione all'interno dell'azienda in alcuni casi, fra cui le «aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni». L'attività venatoria è regolamentata in Italia a livello nazionale dalla Legge 157/92. Il tema della sicurezza trova spazio in essa in tre articoli: 12, 21 e 25. L'art. 12 prevede l'obbligo a carico di chi pratica l'attività venatoria di stipulare una 'polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi derivante dall'uso delle armi o degli arnesi utili all'attività venatoria'. Inoltre, egli ha l'obbligo di stipulare una polizza assicurativa 'per infortuni correlata all'esercizio dell'attività venatoria'. Viene qui citata espressamente l'eventualità di 'morte o invalidità permanente'. Il Legislatore dunque riconosce, come del resto è ovvio, all'attività venatoria caratteristiche di alto rischio e riconosce come soggetti esposti a esso non solo coloro che praticano tale attività ma anche persone a essa estranee. Nel contempo tuttavia egli affronta questo aspetto in un'ottica puramente risarcitoria. La medesima ottica guida l'art. 25, il quale istituisce un 'Fondo di garanzia per le vittime della caccia' nei casi in cui il responsabile dei danni non sia identificato o risulti privo di assicurazione per responsabilità civile verso terzi, limitando però il diritto al risarcimento ai 'soli danni alla persona che abbiano comportato la morte od un'invalidità permanente superiore al 20 per cento'. Si ribadisce con ciò l'affermazione che l'entità dell'esposizione al rischio, anche per il soggetto estraneo può risultare grave o addirittura letale. La parola "prevenzione", in tutto l'articolato della Legge appare due sole volte: nell'art. 14 comma 14 e nell'art. 26 comma 1, i quali trattano di risarcimenti e appunto 'prevenzione' indifferentemente dai danni causati dalla fauna selvatica e dall'attività venatoria. Il contesto lascia però intendere che si alluda a danni a cose piuttosto che a problematiche di sicurezza. La prevenzione non è esplicitamente trattata in quanto tale (fatto questo particolarmente significativo) ma accorpata, nell'art. 21, con altre disposizioni sotto la comune dicitura 'divieti'. Prima di analizzarlo è utile soffermarsi un momento sull'art.1 comma 2 il quale afferma: L'esercizio dell'attività venatoria è consentito purché non contrasti con l'esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole. Una omissione colpisce in questa norma, trattando essa di un 'esercizio' consistente come detto nell'uso massiccio di armi da fuoco in luoghi promiscui con altre attività umane: che esso non costituisca pericolo per l'incolumità pubblica. Si nota dunque fin dall'articolo iniziale la precisa assenza, nella impostazione di principio voluta dal legislatore, di ogni preoccupazione relativa alla sicurezza e alla prevenzione. E ciò nonostante il fatto che «è chiaro che l'attività venatoria può porre in pericolo la tranquilla convivenza dei cittadini, la loro incolumità, particolari attività da questi svolte, ecc. ecc.».[5] Quest'ultima frase non l'abbiamo tratta da una pubblicazione ambientalista o animalista ma da un manuale di tecnica venatoria della Federazione Italiana della Caccia, che più oltre citeremo diffusamente. Essa non può dunque certamente essere accusata, per la fonte da cui proviene, di essere viziata da posizioni pregiudiziali o da esagerazioni estremisticamente tendenziose. Esaminiamo ora il citato art. 21. Per l'esattezza esso prevede il divieto di esercizio venatorio, fra gli altri, nei seguenti luoghi: giardini, parchi, terreni adibiti ad attività sportive, aie, corti o altre pertinenze di fabbricati rurali. Prevede inoltre delle distanze minime da rispettare dai fabbricati (100 m), dalle macchine agricole in funzione (100 m) e dalle vie di comunicazione (50 m), escludendo però da queste ultime le strade poderali e interpoderali. Tali distanze diventano di 150 m qualora si spari in direzione di una delle entità suddette se si usa un'arma con canna ad anima liscia, di una volta e mezza la gittata massima nel caso di uso di altre armi. Questo articolo esaurisce tutto ciò che il Legislatore nazionale ha ritenuto di dover dire in materia di prevenzione degli incidenti di caccia con riferimento alla tutela della sicurezza di terze persone. Il miglior commento a esso lo abbiamo trovato nel manuale sopra citato (p. 441 e seguenti) il quale, notevole evidenziarlo, risale al 1979 e dunque commenta in realtà la preesistente L. 968 del 27/12/1977 e non l'attuale L. 157/92 che l'ha sostituita. La seconda infatti null'altro ha fatto, in tema di prevenzione e sicurezza, che riprodurre, pressoché letteralmente, la prima con ciò facendo sì che considerazioni vecchie di quasi un quarto di secolo rimangano oggi di piena attualità. Ecco dunque un ampio estratto del commento che tale manuale fa relativamente agli obblighi relativi alle distanze di sicurezza: I divieti all'esercizio venatorio che sotto vedremo attengono alla tutela della incolumità pubblica. (...) Una casa, una villa, ecc. ecc., anche se al momento disabitata, deve sempre godere del raggio di m. 100 di rispetto, in quanto è sempre adibita ad abitazione. Non rientrano invece in questo concetto le case abbandonate e diroccate che talvolta si incontrano in certe zone, in quanto non più adibite ad abitazione; invece occorre rispettare la distanza di legge pure da una fabbrica, ad esempio, chiusa per ferie, perché si tratta sempre di un immobile adibito a posto di lavoro (anche se temporaneamente non funzionante). (...) Non è invece tutelato dalla distanza di legge un carro agricolo, ad esempio, fermo in un campo, sul quale in quel momento alcune persone caricano del fieno; ciò perché un carro agricolo non è un immobile (bensì un veicolo). Quest'ultimo punto è uno dei due soli elementi di diversità (vedremo poco oltre il secondo) in materia di sicurezza rispetto alla L. 157/92 il cui art. 21 (comma 1, lettera l) come abbiamo visto include l'obbligo di rispettare le distanze anche con riferimento a 'macchine agricole in funzione'. E' questo l'unico passo avanti che si è fatto in 25 anni. Proseguiamo nella lettura del commento riportandone l'interessante parte in cui si precisa cosa debba intendersi per 'strada': Qualche problema può sorgere quando ci troviamo di fronte ad una strada: per strada deve intendersi quella via di comunicazione che è percorribile (salvo fatti eccezionali) in ogni stagione dai veicoli ordinari. Esistono tracciati in terra battuta che sono percorribili da questi, ma soltanto in alcune stagioni dell'anno; appena piove il tracciato diviene intransitabile; non siamo perciò dinanzi ad una strada. Egualmente con motociclette o auto fuori-strada si possono percorrere sentieri o carrarecce transitabili soltanto con carri agricoli, da trattori, o a piedi; anche in questo caso non siamo dinanzi a una 'strada' come la legge intende, perché transitabile soltanto con mezzi particolari e non con veicoli ordinari. La legge poi non impone il rispetto della fascia di m. 50 di distanza da quelle strade, che pur avendo i requisiti di transitabilità sopra detti (...) siano poderali o interpoderali; per poderale si intende quella strada che pur partendo da una strada pubblica, porta ad una unità poderale, servendo normalmente ad un numero limitato di persone addette a quel podere (anche se ivi possono passare altre persone per recarsi alla relativa casa), e lì si fermi senza proseguire; per interpoderale si intende quella strada che pur partendo da una strada pubblica, serve più unità poderali, congiungendo un immobile ad altri, ma poi sempre terminando senza sfondo alcuno. Se al contrario questa strada, pur partendo da una strada pubblica e congiungendo diverse unità poderali, prosegue riallacciandosi ad altra strada pubblica, ecco che questa serve ad un numero indeterminato di persone e come tale rientra nel raggio del rispetto di m. 50 per l'esercizio venatorio. In altre parole le strade senza sfondo non sono tutelate dalla legge, in quanto assai meno frequentate. Citiamo infine quest'ultimo passo: Le competenti autorità possono disporre il divieto temporaneo di caccia nelle zone interessate da intenso fenomeno turistico; la esigenza del divieto (applicabile presumibilmente dai Comuni) è così evidente che non necessita di commento alcuno. È opportuna a quest'ultimo proposito una breve digressione poiché questo è il secondo elemento di diversità fra l'abrogata L. 968/77 e l'attuale L. 157/92, e questa volta lo è in senso regressivo. L'art. 20 della precedente legge statale sulla caccia consentiva infatti alle autorità territoriali competenti di "vietare temporaneamente la caccia nelle zone interessate da intenso fenomeno turistico". Tale previsione non è stata però ribadita nella vigente legislazione statale che su questo punto è riuscita a essere pertanto addirittura peggiorativa della precedente. Da notare però che 'una recentissima sentenza del Consiglio di Stato ha riconosciuto il potere del Sindaco di vietare la caccia per un limitato periodo di tempo ed in una zona circoscritta, con ordinanza ben motivata contingibile ed urgente per motivi di polizia locale, a tutela della pubblica incolumità'.[6] Si tratta per l'esattezza della sentenza n.2387 del 4/2/2003 della sesta sezione del Consiglio di Stato dalla quale è interessante riportare il seguente estratto: A norma dell'art. 38, co. 2, L. 8 giugno 1990, n. 142, in vigore all'epoca dei fatti: '2. Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini; per l'esecuzione dei relativi ordini può richiedere al prefetto, ove occorra, l'assistenza della forza pubblica'. (...) Il provvedimento è infatti motivato con riferimento alla circostanza che nel periodo estivo vi era nel Comune di Sauris una rilevante presenza di turisti, messi in pericolo dall'esercizio quotidiano della caccia. Tale esercizio era autorizzato durante l'intera giornata, e non solo all'alba e dopo il tramonto, come sostenuto da parte appellante. Né è sufficiente ad escludere il pericolo la circostanza che la caccia al capriolo avviene senza cani, e solo da parte di tiratori specializzati, perché non sono solo i cani a creare pericolo per l'incolumità, né è sufficiente la particolare competenza dei cacciatori, ad impedire l'errore umano nell'uso delle armi, errore che può essere fatale in situazioni di particolare affollamento della zona a causa della presenza di turisti. In conclusione, va riconosciuto il potere del Sindaco a vietare l'esercizio della caccia per un limitato periodo di tempo e in una zona circoscritta, con ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell'art. 38, co. 2, L. 8 giugno 1990, n. 142, a tutela dell'incolumità pubblica (in termini, T.A.R. Lazio - Roma, sez. II, 18 settembre 1991, n. 1368), e, in particolare, della salute dei turisti della zona in un determinato periodo dell'anno, ove l'urgenza sia tale da non consentire il ricorso tempestivo ad altri rimedi. Rilevante notare che con tale sentenza si respinge un ricorso presentato dalla Federazione Italiana della Caccia, la stessa Associazione Venatoria che ha curato la redazione del manuale che qui stiamo utilizzando e in cui si scriveva, come già citato, che: "'la esigenza del divieto (...) è così evidente che non necessita di commento alcuno', la qual cosa dovrebbe indurre ad approfondite riflessioni circa l'aderenza fra le dichiarazioni di principio e la pratica attività del mondo venatorio o di almeno parte di esso". Torniamo ora al nostro discorso principale: da quanto sopra detto emerge un elemento di fondamentale importanza: il singolo cittadino non è tutelato - col che intendiamo: non è oggetto di tutela preventiva - in quanto tale bensì solo in quanto 'immerso' in una rilevante collettività (la strada su cui egli transita deve essere 'molto' frequentata, il fenomeno turistico deve essere 'intenso'). Esempio concreto: una persona che lasci una via pubblica per incamminarsi lungo il viottolo che conduce alla propria abitazione di campagna è da quell'istante al di fuori di qualsiasi tutela preventiva di legge e deve pertanto ritenersi potenzialmente esposto (sia pure 'accidentalmente') al tiro di colpi d'arma da fuoco. Salvo poi ottenere ciò che per legge è da intendersi un 'giusto' indennizzo, per sé se gli va bene, ... per i propri beneficiari testamentari se gli va male. Di fatto, l'art. 21 tutela in realtà la sicurezza di quanti si trovino all'interno di fabbricati e loro immediate pertinenze e vie di comunicazione pubbliche, ma esclude totalmente ogni altra circostanza, quale la persona che esce di casa e si sofferma in giardino, il lavoratore agricolo che non opera alla guida di una macchina, l'escursionista, eccetera. Per tutti costoro la 'tutela' prevista è, come già detto, limitata alla pura e semplice ottica risarcitoria degli art. 12 e 25: prima farsi sparare e poi chiedere i danni. Notiamo ancora il sussistere di una diretta conseguenza di questa impostazione su un piano che non crediamo sia esagerato definire dei diritti umani. Qualora infatti si voglia garantire la condizione di tutela preventiva della sicurezza, la L. 157/92, per il solo fatto di consentire l'attività venatoria, impone inaccettabili limitazioni alla libertà del cittadino, costretto, se vuole mantenersi al sicuro, alla reclusione all'interno dei fabbricati o, se è un lavoratore agricolo, delle macchine operatrici. Chi non volesse soggiacere a tali limitazioni si troverebbe nella condizione di soggetto esposto a rischio: a quel non trascurabile rischio che è il tiro di armi da fuoco, con la sola tutela della normativa risarcitoria, vedendo così gravemente violato il suo diritto alla sicurezza. Non solo, ma una tale impostazione ci pare anche in contrasto con l'art. 32 della Costituzione Italiana secondo il quale 'la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività'. Potendo il concetto di sicurezza intesa come tutela della propria incolumità fisica rientrare nel più ampio novero della tutela della salute, si vede come nella vigente legislazione venatoria sia mancante l'elemento della tutela della salute come 'diritto dell'individuo'. La tutela è garantita, ripetiamo, solo nei confronti della collettività. Si vede dunque come il concetto di prevenzione quale è elaborato nella legislazione venatoria sia estremamente rudimentale prevalendo in essa, come visto, l'impostazione risarcitoria, legata, anche qui, al concetto di 'incidente' come effetto di imprevedibile fatalità piuttosto che strettamente legato a fonti di pericolo e condizioni operative intrinseche all'attività svolta. In questa direzione è ancor oggi orientato anche il senso comune, e basti citare, a puro titolo esemplare, il seguente articolo di cronaca relativo al ferimento 'accidentale' di due persone ad opera di un cacciatore, nel cui testo balza agli occhi la ripetizione ossessiva di parole quali 'coincidenza', 'accidentale', 'fatalità', così ossessiva da generare il legittimo sospetto che il cronista volesse convincere innanzi tutto se stesso prima ancora che il lettore. Il Resto del Carlino 14 - 10 - 2002 CACCIA PERICOLOSA, FERITI AL VOLTO DAI PALLINI CADELBOSCO - Una sfortunata coincidenza, con le fronde di un'albero che hanno deviato alcuni pallini da caccia, che in discesa hanno accviato da un'albero, ferendo al volto il 23enne Yagrady Singh ed il connazionale Sevvak Singh, di 31 anni. E' stato lo stesso cacciatore a prestare i primi soccorsi ai due indiani, portati in auto all'ospedale di Guastalla, dove sono stati medicati per lesioni giudicate lievi. I carabinieri non hanno assunto alcun provvedimento nei confronti del cacciatore, in quanto non è stata ravvisata alcuna ipotesi di reato. E' stata solo una fatalità. Galaverni è cacciatore da oltre trent'anni: è esperto di attività venatoria e mai prima d'ora gli era capitato un episodio simile. Sul posto, guidati dal maresciallo Vincenzo Milazzo, sono intervenuti i carabinieri di Guastalla. (Antonio Lecci) Da parte nostra commentiamo soltanto come sia ben noto anche al meno esperto dei tiratori che il rimbalzo dei pallini in condizioni di tiro con presenza di ostacoli sia da ritenersi non coincidenza o fatalità, ma evento perfettamente verosimile e il cui verificarsi è dunque da prendere in considerazione a priori. L'omissione di questa intuitiva constatazione e dunque il pregiudiziale prevalere dell'arcaica concezione dell'incidente come fatalità ha fatto sì che gli stessi carabinieri non abbiano ravvisato 'alcuna ipotesi di reato'. Il che probabilmente, stanti le rudimentali concezioni dell'attuale legislazione venatoria in tema di sicurezza, è perfino esatto. Abbiamo inoltre visto come il D.L. 626/94 imponga precisi obblighi in merito alla gestione delle misure di emergenza. Nulla di tutto ciò è presente nella L. 157/92 a eccezione dell'inserimento, fra le materie d'esame per il conseguimento della licenza di caccia, di nozioni di pronto soccorso. Un ultimo punto da notare è che l'art. 12 impone un limite minimo di età per il conseguimento della abilitazione all'esercizio venatorio (18 anni) ma non un limite massimo. Inoltre l'art. 22 prevede che il rinnovo di tale abilitazione, con relativa visita medica tendente ad accertare l'idoneità del candidato, debba avvenire ogni 6 anni, periodo di tempo certamente non breve, soprattutto in soggetti in tarda età. Ciò conduce a conseguenze a volte addirittura grottesche. Durante l'ultima stagione venatoria infatti fra coloro che sono stati autorizzati a imbracciare un fucile nelle campagne italiane c'è stato anche un uomo di 100 (cento) anni compiuti.[7] Riteniamo superfluo commentare il fatto. Né è da ritenersi un caso isolato. Ecco qualche ulteriore dato relativo ai tesserini venatori rilasciati nel 2003 in provincia di Brescia: 'Quasi il 40 per cento [dei cacciatori] ha dai 51 ai 65 anni: in termini assoluti 12.021 praticanti. Mille e 227, invece, i più giovani fra i 18 e i 25 anni. Hanno avuto il tesserino (chissà se è stato usato...) anche quattro ultra novantenni e 136 ultra ottantenni. Ben 1.985 i cacciatori con oltre settant'anni.'.[8] Tutto ciò non deve stupire visto il sussistere di un sensibile grado di 'generosità' del Legislatore nel definire i requisiti fisici minimi richiesti per ottenere il porto d'armi per uso di caccia. La norma che definisce tale punto, insieme agli analoghi requisiti richiesti per armi da difesa personale, è il Decreto 28 aprile 1998 del Ministero della Sanità il quale costituisce, nei propri intendimenti, perfezionamento del precedente decreto 14 settembre 1994 'con il quale sono stati determinati detti requisiti in maniera differenziata in relazione ai diversi tipi di armi, ai diversi impieghi delle stesse ed al loro diverso grado di pericolosità', così si legge nel preambolo al Decreto 28 aprile 1998. Si noti la distinzione non solo fra i diversi tipi di arma, ma anche fra i diversi impieghi, col che si riconosce implicitamente il ruolo non solo del tipo di arma, ma anche delle condizioni d'uso nel determinare il livello di rischio. Nonostante ciò il successivo art. 1 tratta in maniera indifferenziata i casi di 'uso di caccia (...) e sport del tiro al volo'[9] ignorando totalmente il fatto che le condizioni d'uso delle armi nell'uno e nell'altro caso sono profondamente diverse ed è dunque impensabile che i medesimi requisiti possano essere richiesti a chi pratica l'una o l'altra attività. La 'generosità' cui accennavamo si comprende facilmente constatando che il suddetto Decreto consente il porto d'armi per uso di caccia perfino a persone che abbiano perso l'uso di un occhio (e dunque la possibilità di valutare le distanze, che solo la visione binoculare consente) o siano affette da minorazioni agli arti superiori o alla colonna vertebrale purché si dotino di 'mezzi protesici od ortesici che consentano potenzialmente il maneggio sicuro dell'arma'. Ci si domanda il significato che il legislatore ha voluto dare al termine 'potenzialmente', notando che esso si presta a essere interpretato nel senso dell'insussistenza a carico dell'esaminatore, dell'obbligo di accertare la capacità effettiva, non solo teorica, del minorato, di maneggiare in maniera sicura l'arma. Un'ultima nota la rivolgiamo al regime sanzionatorio che nel D.L. 626/94 (Titolo IX) è fortemente spostato sul versante penale (delle 13 sanzioni previste 12 sono penali e una sola amministrativa), a prescindere dal fatto che specifiche mancanze nell'attuazione degli obblighi relativi alla prevenzione si siano o meno tradotte in un effettivo danno alle persone. Il solo fatto di non aver posto in atto una misura di prevenzione è visto come reato penalmente perseguibile. Nella L. 157/92 le sanzioni relative a violazioni degli obblighi relativi alla sicurezza sono esclusivamente amministrative (art. 31, comma 1 lettera e): caccia in zone di divieto non diversamente sanzionate): in poche parole sparare un colpo d'arma da fuoco a distanza ravvicinata contro una abitazione (e dunque contro i suoi occupanti) è ritenuta dal Legislatore mancanza appena un po' più grave del parcheggiare in divieto di sosta. Solo qualora l'atto procuri danni reali scattano le conseguenze penali. Come era nel campo della sicurezza sul lavoro prima delle più recenti evoluzioni legislative. Concludendo relativamente alla L. 157/92, notiamo esplicitamente come essa nasca in anni che vedono importanti innovazioni legislative in tema di sicurezza del cittadino (e primo fra tutti il definitivo abbandono del concetto di incidente come fatalità): il ripetutamente citato D.L. 626/94 in tema di sicurezza sul lavoro e la L. 46/90 in tema di impiantistica: norme capillari e dettagliate fino al limite (peraltro ben comprensibile) della pignoleria.[10] Ancor più singolare e stridente risulta pertanto il fatto che essa sia ferma a una impostazione che nella sicurezza sul lavoro era tipica, come abbiamo visto, della legislazione di un secolo prima. Nel seguito cercheremo di comprendere le ragioni di questa 'immobilità' della legislazione che regolamenta l'attività venatoria in merito alle questioni relative alla sicurezza e ci domanderemo soprattutto se tale immobilità sia riformabile o non piuttosto 'fisiologica' ovvero strettamente legata alla natura dell'attività venatoria stessa. 4. Valutazione quantitativa dei rischi connessi all'attività venatoria Per comprendere questa contraddittoria, arcaica arretratezza della L. 157/92 rispetto alla contemporanea regolamentazione della sicurezza in altri, meno controversi campi, fingeremo nel seguito che la caccia sia una attività lavorativa e che pertanto essa rientri nell'ambito di applicabilità del D.L. 626/94. Proveremo dunque ad abbozzare una sorta di documento di valutazione dei rischi relativo all'attività venatoria. Premettiamo che il percorso attraverso cui nel campo della sicurezza sul lavoro si giunge alla prevenzione è il seguente: - Individuazione delle fonti di pericolo; - Valutazione dei rischi; - Eliminazione o riduzione dei rischi. Diamo ora le seguenti definizioni: Pericolo: Proprietà o qualità intrinseca di una determinata entità (sostanza, attrezzo, metodo) avente potenzialità di causare danni; Rischio: esprime il livello potenziale di danno nelle condizioni d'impiego e/o esposizione. La probabilità che sia raggiunto il livello di danno potenziale rappresenta la valutazione qualitativa del rischio; la previsione della dimensione del possibile danno rappresenta la valutazione quantitativa. La presenza di una fonte di pericolo non implica necessariamente un rischio né tanto meno la presenza di un pericolo è in grado di dare informazioni sulla natura del possibile rischio, sia in termini qualitativi (probabilità) che quantitativi (dimensione, entità del danno). Nel nostro caso la fonte di pericolo è rappresentata ovviamente dalle armi da fuoco. Anche nel caso di esse (più che mai nel caso di esse) il rischio collegato al loro uso è strettamente connesso alle condizioni operative. E' chiaro che l'utilizzo di un fucile all'interno di un poligono di tiro, con il tiratore in piedi su una pedana antisdrucciolo, la visuale libera e l'area di tiro recintata presenta un rischio, se non altro in termini qualitativi (probabilità) estremamente inferiore all'uso dello stesso fucile su terreni di campagna o boschivi, non di rado irregolari, scoscesi o sdrucciolevoli e per di più in spazi promiscui con altre attività umane e dunque senza alcuna certezza che l'area di tiro sia sgombra. Queste ultime, ripetiamolo e sottolineiamolo, sono le condizioni in cui si svolge l'attività venatoria. Uno dei più semplici criteri di valutazione quantitativa del rischio collegato a una attività produttiva è dato dalla formula: R = P * D dove: R = Rischio P = Probabilità che l'evento si verifichi D = Danno conseguente all'evento (gravità o magnitudo)> P e D dipendono ovviamente dalle condizioni di impiego della, o esposizione alla, fonte di pericolo.> A P e D si attribuiscono valori numerici da 1 a 4 secondo la seguente scala arbitraria: 1- Improbabile 2 - Poco probabile 3 - Probabile 4 - Altamente probabile Bisogna poi stabilire dei criteri con cui attribuire ciascun evento a uno dei livelli sopra elencati. Si attribuisce valore di Probabilità 1 (minima) a un evento per il quale non esiste correlazione diretta fra mancanza rilevata e danno; non si sono già verificati danni simili in situazioni operative simili; il verificarsi del danno susciterebbe stupore in azienda. Si attribuisce valore di Probabilità 4 (massima) a un evento per il quale esiste correlazione diretta fra mancanza rilevata e il verificarsi del danno ipotizzato per i lavoratori; si sono già verificati danni simili in situazioni operative simili (cioé identica mancanza) nella stessa azienda o in aziende simili; il verificarsi del danno non susciterebbe stupore in azienda. 2 e 3 sono ovviamente casi intermedi. La scala del danno D da infortunio o esposizione acuta o cronica è definita come segue: 1 - Lieve: esposizione con effetti rapidamente reversibili 2 - Medio: esposizione con effetti reversibili 3 - Grave: infortunio o esposizione generante invalidità parziale. 4 - Gravissimo: infortunio o esposizione generante effetti letali o invalidità totale. Il valore di R risulta in tal modo compreso fra 1 e 16. Esso viene rappresentato graficamente in una matrice che è il punto di partenza per la definizione delle priorità e della programmazione temporale negli interventi di prevenzione e protezione da adottare. Si stabilisce con criteri da indicare che se: R=1 le azioni migliorative sono da valutare in fase di programmazione (sono cioé dilazionabili) 2≤R≤ 3 le azioni correttive sono da programmare a breve o medio termine 4≤R≤ 8 le azioni correttive sono da programmare con urgenza R>8 le azioni correttive sono indilazionabili. Applichiamo ora tutto ciò alla valutazione del rischio connesso all'attività venatoria. A) Valutazione di P - Correlazione diretta fra mancanza rilevata e danno: nella maggior parte degli incidenti con esito mortale questa condizione sussiste verificandosi essi a seguito di tiro in condizioni di visuale non libera e senza pertanto avere percezione del punto di impatto. Una parte rilevante degli incidenti mortali avviene inoltre in condizioni di caccia di squadra (caccia al cinghiale) in luoghi boschivi, condizioni in cui l'unione dell'alta probabilità di spostamenti erronei da parte di uno dei membri della squadra e della scarsa visuale del terreno rende evidente la correlazione fra condizioni operative ed evento negativo. - Occorrenza di danni simili in situazioni operative simili: ovviamente questa condizione è verificata sulla base di una nutrita casistica. - Reazione di stupore al verificarsi del danno: questa condizione è la più ambigua in quanto dipendente da fattori emotivi (e dunque soggettivi) e dalla conoscenza da parte delle persone coinvolte della casistica relativa agli incidenti analoghi. Quest'ultimo punto è da ritenersi fondamentale poiché è chiaro che qualsiasi evento, anche il più frequente, genererà stupore in chi non è a conoscenza delle precedenti occorrenze di esso. Ipotizzando dunque una piena conoscenza delle statistiche e delle cronache relative agli incidenti di caccia non riteniamo sia lecito ipotizzare o giustificare alcuno stupore di fronte alla notizia dell'ennesimo incidente di caccia. Ciò che se mai potrebbe generare stupore è la notizia di una stagione venatoria conclusasi senza incidenti mortali. Si conclude che sono verificate tutte e tre le condizioni cui è associato il valore massimo di P e pertanto assumiamo: P = 4 B) Valutazione di D La casistica mostra che esiste un'ampia gamma di gravità dei danni possibili, dal danno lieve fino all'evento letale. Sono tuttavia questi ultimi che ci interessano, e abbiamo visto come la loro frequenza sia tale da superare di oltre 6 volte quella degli incidenti mortali sul lavoro. Inoltre gli incidenti con esito mortale sono stati come già detto 47, su un totale di 113 incidenti verificatisi durante la stagione venatoria 2001/2002, ovvero essi sono stati il 41.6% del totale. Nel 2001 il totale di incidenti sul lavoro fu di 998.007, di cui come già detto 1.366 mortali, ovvero lo 0.14 % del totale il che ci dice come quando avviene un incidente nell'attività venatoria la probabilità che esso sia mortale sia 297 volte maggiore che negli incidenti sul lavoro. Si ha dunque una netta prevalenza della casistica relativa alla massima magnitudo del danno. Assumeremo pertanto: D = 4 Si giunge così a una valutazione di R pari a: R = 4 x 4 = 16 ovvero al valore massimo della scala. Si noti come anche volendo essere meno severi ed attribuendo sia a P che a D il valore 3 (non ci sembra comunque lecito scendere ulteriormente) si ottiene comunque R = 9. Nell'uno come nell'altro caso rimaniamo nella condizione R > 8, ovvero di necessità indilazionabile di misure correttive. Notiamo anche come un ipotetico datore di lavoro che persistesse nel mantenere in essere una tale situazione andrebbe incontro a severe sanzioni penali. 5. Prevenzione, protezione e loro conseguenze sull'esercizio venatorio. Constatato dunque lo stato di assoluta illegalità ipotetica dell'attività venatoria qualora la si assimilasse fittizziamente a una attività lavorativa e stabilita pertanto l'indilazionabilità di misure correttive, vediamo quali esse possano essere, distinguendo fra misure di prevenzione e di protezione. 5.1 Misure di prevenzione. Una cosa è certa dopo quanto si è esposto: la vigente legislazione in materia venatoria non ci guida minimamente nella loro elaborazione, per cui è altrove che dovremo cercare dei punti di riferimento. Paradossalmente essi ci vengono dai manuali di tecnica venatoria. Faremo riferimento nel seguito nuovamente a quello edito dalla Federazione Italiana della Caccia nel 1979[11], anteriore dunque di 13 anni alla L. 175/92. Riteniamo significativa questa cronologia, emblematica di come la Legge non abbia neppure recepito preesistenti acquisizioni tecniche, e non certo di parte abolizionista. Prima di esaminare il testo citato cerchiamo di capire in quale direzione si possano ritenere attuabili misure di prevenzione. Si possono distinguere misure attuate sulle procedure (cioé sui comportamenti), sugli attrezzi (in questo caso l'arma da fuoco) e sull'ambiente in cui si svolge l'attività (in questo caso boschi e campagne). Si può senz'altro escludere quest'ultimo punto in quanto, essendo la caccia attività che si svolge sul campo, l'ambiente è a priori non soggetto ad alcuna controllabilità. Detto in altro modo, l'incontrollabilità dell'ambiente in cui si svolge è caratteristica intrinseca, ineliminabile dell'attività venatoria. Per quanto riguarda il secondo punto, la 'sicurezza delle armi', il concetto stesso risulta internamente contraddittorio essendo un'arma un oggetto il cui scopo è quello di procurare un danno. Rendere un'arma 'sicura' equivale a renderla inoffensiva, dunque ad annullarne la funzione. Si ricordino a questo proposito i già citati problemi sorti nell'applicazione del D.L. 626/94 a Esercito e Forze dell'Ordine. Unica eccezione a questo discorso il 'dispositivo di sicura' di cui ogni arma è dotata, avente lo scopo di evitare spari accidentali. Su questo punto il manuale suddetto afferma testualemente: Se un fucile è ben costruito il sistema di sicura dovrebbe in astratto garantirci da cattive sorprese. Ma tutti i meccanismi sono soggetti a guasti e alcuni fucili a canne basculanti, purtroppo, sono belli a vedersi esternamente e un po' meno belli all'interno. Pertanto, anche con l'arma in sicura, nessuna confidenza o distrazione; la sicura non è sicura in senso assoluto. La mai completa affidabilità della sicura è ritenuto concetto di tale rilevanza da essere poi ribadito in un ulteriore passo che citeremo più avanti. Discuteremo infatti ulteriormente nel seguito di tale dispositivo e dei suoi limiti nel garantire la prevenzione. Rimane dunque il primo punto, i comportamenti. Il citato manuale dedica alla sicurezza 11 pagine di testo, quattro delle quali enfatizzate mediante stampa a caratteri maiuscoli, più 10 pagine di illustrazioni. Ventuno pagine in tutto su un totale di 500 non sono tantissime ma sono sempre più di quante non ne abbia mai dedicate a questo tema il Legislatore. Esaminiamone i punti principali (omettendo per comodità di trascriverle nell'originario maiuscolo). Il paragrafo relativo alle 'Norme generali' comincia con alcune affermazioni estremamente interessanti, che riportiamo integralmente: Qualcuno ha detto che il fucile lo carica il diavolo. È, questa, una frase che riassume in modo colorito ed efficace tutta la pericolosità delle armi ma che sottintende come l'effettiva pericolosità non risieda tanto nell'arma in sé quanto nel comportamento, spesso irrazionale, dell'uomo. Negli incidenti di caccia la fatalità ha un ruolo veramente marginale e viene spesso invocata soltanto per giustificare maldestramente ben diverse cause e responsabilità. Qui vediamo enunciati alcuni principi estremamente evoluti in merito alla sicurezza, benché accompagnati da alcune contraddizioni. Nel primo capoverso viene enunciata la differenza fra fonte di pericolo e rischio effettivo, tuttavia con riferimento a quest'ultimo, si suggeriscono come cause 'comportamenti irrazionali' (senza dubbio massicciamente presenti) ma non si fa alcun riferimento esplicito al sussistere di intrinseche condizioni operative determinanti il rischio. Importante è anche il secondo capoverso in cui si prendono radicalmente le distanze dal concetto di incidente come fatalità. A questa introduzione seguono 20 norme di prudenza (le 4 pagine in maiuscolo). Analizziamone le principali. Possiamo suddividerle in due gruppi: a seconda che si tratti di norme relative ai comportamenti atti a conseguire la prevenzione di incidenti nel porto dell'arma o nell'atto dell'uso della medesima. Cominciamo dall'analisi del primo gruppo, limitandoci alle principali fra esse. 2) Evitare sempre nella maniera più assoluta e neppure per un attimo di rivolgere le canne del fucile verso le persone, anche se siete convinti che l'arma sia scarica. 10) Nelle soste di caccia (...) fucili sempre scarichi e sotto controllo: un fucile carico appoggiato ad un albero può sempre cadere e non è detto che il colpo non parta, anche se è in sicura. 11) Nell'attraversare un bosco, proteggere i grilletti mettendo la mano sopra il ponticello (...) 14) Evitare di portare il fucile a bilanciarm: un colpo che parta accidentalmente segue la traiettoria dell'altezza d'uomo! Questo primo insieme di norme appare improntato al più elementare e intuitivo buon senso ed è soprattutto di facilissima attuabilità. Nonostante ciò si riscontra quasi in ogni annata venatoria la presenza di incidenti causati dal mancato rispetto delle norme 10) e 11). Si tratta comunque di incidenti causati da mancanza individuale, non da una intrinseca inattuabilità della prevenzione. 5) Poiché le cadute sono a portata di... piede, quando appaiono anche lontanamente possibili mettere almeno l'arma in sicura; ma nei passaggi difficili, in terreni notevolmente scoscesi, ecc. è necessario provvedere a scaricare l'arma stessa! Questa è la sicura migliore. L'attuabilità di questa norma dipende fortemente dalla natura del terreno. In caso di caccia su terreni montuosi la presenza di passaggi difficili è ovviamente così frequente che il cacciatore dovrebbe continuamente stare a scaricare e caricare l'arma. Su tali terreni è pertanto irrealistico parlare di prevenzione di incidenti da caduta. Notiamo anche che incidenti di questo genere sono anche fra i più frequenti, e non di rado con esiti gravi. La norma successiva è, sotto questo aspetto, illuminante. 3) Non esiste una posizione di sicurezza per portare il fucile da caccia: tutto dipende dalle caratteristiche del terreno, dalla posizione dei compagni di caccia o di altre persone ecc. ecc.: ma la regola fondamentale è (...): evitare di volgere le canne dell'arma, neppure per un attimo, verso le persone. In questa norma si afferma di fatto la dominanza dell'ambiente nel determinare il livello di sicurezza e dunque, stante la già detta non assoggettabilità a controllo dell'ambiente stesso, si afferma l'ineliminabile aleatorietà di tale livello. Ancora sul rischio di cadute e nel contempo sui limiti nell'efficacia del dispositivo di sicura, è illuminante il passo seguente: La sicura peraltro, è bene ricordarlo, non dà mai la sicurezza in senso assoluto; talvolta un violento urto dell'arma sul terreno può far partire egualmente il colpo, anche se il fucile è in sicura (...) perciò nei passaggi difficili e tutte le volte in cui si presentino possibilità di rovinose cadute (il terreno di caccia non è mai il pavimento di una sala!) la migliore sicura è l'arma scarica. Ricordarsene sempre, perché è meglio perdere un'occasione venatoria piuttosto che piangere su un ferito o su un morto! Passiamo ora al secondo gruppo di norme relative alle modalità d'uso delle armi. Notiamo che sono questi ultimi, nella quasi totalità, i casi in cui si hanno incidenti coinvolgenti terze persone. 9) Evitare di recarsi a caccia in brigate numerose: in questo caso è praticamente impossibile conoscere le posizioni degli altri: non siate mai in più di due o tre cacciatori, e segnalatevi sempre le rispettive posizioni 18) Cacciando in battuta agli ungulati, evitare nella maniera più assoluta di abbandonare la posta assegnata, o anche di gironzolare attorno ad essa fino a che la battuta non ha termine: sparare rigorosamente solo entro l'angolo di tiro assegnato dal capocaccia. Durante la stagione venatoria 2001/2002 si ebbe notizia di una battuta al cinghiale in Umbria cui partecipavano addirittura 50 persone. La battuta si concluse con un incidente mortale. La prima di queste due norme è da intendersi probabilmente con riferimento a cacce non organizzate. La caccia agli ungulati si effettua sempre in squadre i cui membri superano di gran lunga il numero di 2 o 3 suggerito sopra. Si tratta tuttavia di situazioni in cui esiste una figura di coordinatore, il capocaccia, che definisce si presume rigorosamente posizioni e angoli di tiro di ognuno. Il capocaccia tuttavia non è una figura definita per legge, non almeno a livello nazionale. Per l'esattezza 'Le disposizioni sulle responsabilità del caposquadra nelle battute (che in realtà sono "braccate", perchè quasi sempre si usano segugi inseguitori e non battitori) al cinghiale, o sui cartelli di avviso, o sulle pettorine o abbigliamento dai colori appariscenti, sono variegate e non omogenee, e discendono non da leggi dello Stato ma, principalmente, da regolamenti provinciali e regionali che disciplinano più in dettaglio tali cacce. In molte realtà tali accorgimenti non sono neppure obbligatori'.[12] In mancanza di specifiche normative a carattere locale dunque il capocaccia è semplicemente un cacciatore ritenuto particolarmente esperto per opinione comune degli altri partecipanti alla battuta. Egli non deve superare esami particolari, non è tenuto a possedere requisiti specifici. Eppure dalla sua competenza dipende spesso la vita di esseri umani. Si confronti tutto ciò con quanto detto a proposito della genericità con cui il D.L. 626/94 definisce i requisiti del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione e le conseguenze di ciò a livello europeo e si comprenderà quale abisso di diversità in termini di rigore esista fra i due diversi contesti. Ammesso ora il sussistere di fatto di un adeguato livello di competenza del capocaccia e la completa messa in atto di tutti gli accorgimenti precauzionali possibili ('cartelli di avviso, pettorine o abbigliamento dai colori appariscenti'), notiamo che la caccia agli ungulati si svolge spesso in zone di fitta boscaglia e, come già detto, in squadre numerose. In tali condizioni tuttavia il rischio di un movimento fuori tempo, di una posizione errata di uno dei partecipanti alla battuta è elevatissimo e ineliminabile perché dipendente ancora una volta dalle condizioni dell'ambiente. Lo stesso Fausto Prosperini, intervenendo nella polemica sorta nel novembre 2001 a seguito dei numerosi incidenti mortali verificatisi nella caccia al cinghiale in Umbria, indicava nella 'stessa conformazione della regione', cioé in un elemento ambientale intrinseco e ineliminabile, una delle cause principali di tali episodi.[12b] Non è casuale dunque che la percentuale più alta di incidenti mortali si riscontri proprio nella caccia agli ungulati. Se ne conclude che la caccia in battuta può ritenersi possibile in condizioni di sicurezza solo se ciascuno dei partecipanti ha completa visibilità delle posizioni di tutti gli altri. Il che non si avvera mai. 12) Astenersi sempre dallo sparare a un selvatico se non si ha dinanzi a sé la massima visibilità, ricordando sempre quanto già detto: se un pallino a 100 metri non abbatte un selvatico, può sempre accecare una persona! Se un selvatico si leva in terreni cespugliati ad altezza di uomo, astenersi in ogni maniera dallo sparargli: sulla traiettoria dei pallini può sempre esservi un essere umano! Non sparare mai contro frasche che si muovono! Sicuramente quel movimento non è provocato da un selvatico, ma da una persona o da un animale domestico. Interessante notare che moltissimi incidenti, e fra i più gravi, accadono proprio per la violazione di questa norma da parte dei cacciatori. Durante la stagione venatoria 2002/2003 un cacciatore uccise, in simili circostanze, addirittura il proprio fratello. D'obbligo domandarsi come mai quello che dovrebbe essere un comportamento intuitivo per chiunque (non sparare alla cieca) viene invece così spesso accantonato nell'attività venatoria. La risposta è che le condizioni di piena visibilità nelle campagne e ancor più nei boschi si verificano molto di rado. Per l'esattezza si verificano esclusivamente nel caso di terreni prevalentemente o totalmente pianeggianti coperti da vegetazione molto bassa per una estensione pari a tutto il campo di tiro. Cioé in una percentuale assolutamente esigua dei terreni soggetti all'attività venatoria. Il cacciatore che spara senza avere una chiara idea di cosa (e chi) andrà a colpire dunque non è da intendersi come uno sconsiderato che nel premere il grilletto in quelle condizioni compie un gesto irresponsabile. Egli in un non trascurabile numero di casi si trova a dover inevitabilmente agire in quel modo, pena il fallimento della giornata di caccia. Se mai si potrebbe concludere che il gesto irresponsabile egli lo ha compiuto a monte, quando ha richiesto la licenza di caccia. Queste considerazioni risultano poi ulteriormente amplificate quando l'arma utilizzata è la carabina a canna rigata, la gittata massima dei cui proiettili, «cioè la massima distanza a cui il proiettile può arrivare nella migliore delle ipotesi»[13] può giungere fino all'ordine delle migliaia di metri. Si veda a tale proposito la seguente tabella [13] in cui sono riportate le gittate massime dei più comuni proiettili per armi leggere. Gittate massime dei più comuni proiettili per armi leggere Calibro Velocità m/s Gittata in m. 4,5 mm aria compressa 120/165 100/150 4,5 mm aria compressa 200/250 200/300 6/9 mm Flobert 225 700 22 conto 260 1000 22 Long Rifle 350 1370 22 Long Rifle HS 370 1500 22 Winch. magnum 610 1800 243 Winch. 1070 3200 6,35 mm 220 800 7,65 mm 285 1300 9 mm corto 285 1300 9 mm Para 350 1700 AS ACP 300 1620 30 M1Carb. 600 2000 7x70 mm 830 3500 8x57 mm JS 830 3500 6,5x57 mm 1020 4000 7x57 mm 850 4500 6,5x68 mm 1150 5000 Ma crediamo che, al di là delle suddette specifiche balistiche, e dunque degli astratti dati numerici, giovi riflettere su un episodio verificatosi nell'ottobre 1999 nella zona di Karsamaki nella Finlandia centrale: un cacciatore, sparando a un gallo cedrone, colpisce e uccide il fratello che si trovava a 1800 metri di distanza.[13a] Non crediamo sia necessario aggiungere altro sull'estremo, inaccettabile grado di pericolosità di questo tipo di armi e pertanto sulla necessità assoluta e inderogabile di vietarne tassativamente l'uso sul territorio. Ci è stato fatto correttamente notare chercatore di funghi a lasciare sul posto quello di cui non è sicuro di aver identificato la specie e dunque l'innocuità. E' a questo stesso principio che del resto sembra, una volta tanto, essersi ispirato il legislatore nell'aver fatto riferimento alla gittata massima, e non a quella utile, nello stabilire le distanze di sicurezza per le armi a canna rigata. Ancora una considerazione legata al concetto di visibilità: il lettore più attento e consapevole avrà notato che fin qui nessuna menzione è stata fatta di un fenomeno atmosferico che su di essa, come è noto a chiunque, incide pesantemente: la nebbia. È noto a chiunque ma non, a quanto pare, al Legislatore venatorio. In nessuna sua parte la L. 157/92 prevede infatti divieti o limitazioni di sorta all'attività venatoria in caso di nebbia. Alcune leggi regionali o provinciali (ad esempio in provincia di Ravenna) prevedono che in tali casi si indossino speciali indumenti atti ad accentuare la visibilità del cacciatore ma, a parte il fatto che tali misure non tutelano certamente terze persone, la loro efficacia in condizioni di visibilità ridotta non può che essere in pari misura ridotta. Proprio in provincia di Ravenna infatti durante la stagione di caccia 2001/2002 si verificò un incidente provocato dalla nebbia in cui un cacciatore rimase ferito gravemente.[14] 13) Non sparare contro muretti, contro rocce, contro terreni sassosi; i pallini rimbalzano sempre prendendo le più imprevedibili direzioni; ciò avviene, anche se la cosa a molti può apparire impossibile, anche sull'acqua. E avviene, come abbiamo visto, anche a opera delle fronde di un albero. L'esercizio venatorio avviene pertanto in moltissimi casi in presenza di condizioni ambientali in cui il rimbalzo, dunque la perdita di controllo della traiettoria dei pallini, è una eventualità altamente possibile. 15) Non occorre farsi prendere dalla frenesia venatoria alla presenza del selvatico; prima di sparare, va valutata la situazione di sicurezza, senza perdere la calma. Tuttavia in quanti casi il cacciatore ha il tempo di compiere tale valutazione prima che il 'selvatico' si sia portato fuori tiro? Se si esclude la caccia al capriolo e pochi altri casi l'attività venatoria è molto più simile al tiro al piattello che al tiro a bersaglio fisso, e l'intervallo di tempo disponibile alla ponderazione è ridotto spesso a frazioni di secondo. In particolare il tiro al cinghiale, senza dubbio, ripetiamo, una delle forme di caccia più rischiose per numero e gravità degli incidenti che provoca, avviene quasi sempre col selvatico in corsa. La norma 19) ricorda le già citate e discusse disposizioni di legge in materia di distanze da abitazioni ecc., già in vigore a quel tempo. Si noti che essa è l'unica richiamante disposizioni di legge. Tutte le altre hanno valore di pure e semplici raccomandazioni. La loro violazione non era nel 1979 e non è a tutt'oggi, reato né infrazione. La norma 20) infine non aggiunge nulla di nuovo alle precedenti ma ha il solo compito di enfatizzarne, anche emotivamente, l'importanza. È istruttivo riportarla integralmente. 20) Prudenza, prudenza, prudenza! Ogni anno si verificano incidenti, di cui alcuni mortali, nell'esercizio della caccia. Colui che è prudente, colui che è doppiamente prudente, colui che è tanto prudente da apparire pignolo non è mai ridicolo, ma dimostra di essere persona di coscienza, perché nella stragrande maggioranza dei casi gli incidenti di caccia sono dovuti ad una imprudenza. Ad una imprudenza certamente. Quanto evitabile o non piuttosto connessa alle condizioni intrinseche in cui la caccia si svolge, come abbiamo visto, è un altro discorso. Rimane, di questo passo, l'enfasi estrema posta sull'immensa pericolosità dell'esercizio venatorio. Sull'imperativo triplamente iterato a una prudenza attuabile, come abbiamo visto, aleatoriamente e tutt'altro che con razionale sistematicità. Va aggiunto che tutto ciò vale con riferimento alla caccia vagante, ritenuta la meno rischiosa. Lo stesso manuale infatti rileva che: Il controllo dell'arma va ulteriormente intensificato quando ci si trova a cacciare da appostamenti o da natanti. Negli appostamenti il fucile rappresenta un notevolissimo elemento di pericolo; in un capanno di frasche, dove lo spazio è estremamente limitato, è molto facile ad esempio che una frasca si impigli nel grilletto; tenere perciò l'arma in posizione sempre di sicura, potendosi poi rimuovere questa facilmente un attimo prima dello sparo. Si noti come la sicura sia l'unico elemento di prevenzione suggerito, si pensi a quanto sia facile l'eventualità di una banale dimenticanza, nonché l'affermazione della stessa fonte circa la mai completa affidabilità del dispositivo e si raffronti ciò all'entità del rischio conseguente, quale è dal manuale stesso enunciata. 5.2 Misure di protezione. Si intendono per dispositivi di protezione quei dispositivi che garantiscono la sicurezza in condizioni impreviste oppure previste ma non normali. Essi si distinguono in dispositivi di protezione individuale (DPI) e collettiva. Ci si rende conto immediatamente che sull'argomento, con riferimento alla caccia, c'è ben poco da dire. Dispositivi di protezione collettiva non si sa immaginare quali possano essere. Quanto ai DPI, volendo applicare l'art. 43 lettera b) del D.L. 626/94 ('Il datore di lavoro (...) individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi') si giunge all'ovvia constatazione che esiste un solo tipo di tali dispositivi atto a fungere da protezione contro le armi da fuoco: il giubbotto antiproiettile (classificabile fra quelli che nell'allegato IV del D.L. 626/94 sono definiti" 'Indumenti di protezione contro le aggressioni meccaniche"'). Ed è ovviamente impensabile ritenere che tutti i soggetti esposti, ovvero chiunque transiti o sosti in un territorio aperto alla caccia, debba dotarsene. Inoltre questo 'DPI' fornisce una protezione soltanto parziale: un non trascurabile numero di incidenti effettivamente verificatisi avrebbero avuto esito analogo anche se la vittima avesse indossato il giubbotto antiproiettile in quanto colpita in parti che esso lascia scoperte (testa, arti). 6. Considerazioni sulla vigilabilità e sulla vigilanza dell'attività venatoria. Un altro elemento che gioca un ruolo attivo nell'attuazione della prevenzione è la controllabilità dell'attività a rischio. Nel già citato manuale è riportata con estrema evidenza la frase: 'I comportamenti non prudenziali sono purtroppo facilmente riscontrabili sul terreno di caccia', frase che smentisce in maniera eclatante, per la fonte da cui proviene, l'affermazione di Fabio Faina riportata all'inizio di questo articolo. Ed è anche facile comprendere il perché della frequenza di tali comportamenti 'non prudenziali'. Una attività confinata in spazi limitati e ben definiti è intuitivamente maggiormente controllabile di una attività territorialmente 'distribuita' su ampi spazi. Quando poi questa attività è tale da interessare di fatto una parte rilevante del territorio nazionale, si comprende come il suo grado di controllabilità sia minimo. Una tale situazione si presta inevitabilmente al proliferare di comportamenti anomali con conseguente ulteriore degrado dei livelli di sicurezza. E' risaputo oltre tutto che anche il più rigido dei sistemi sanzionatori risulta tanto più inefficace quanto più bassa è la probabilità che la sanzione venga comminata. Nel caso dell'attività venatoria questa probabilità è, per sua intrinseca natura, bassissima. Un altro punto che aggrava ulteriormente questa situazione è poi il fatto che la questione dell'incompatibilità fra l'appartenere a organismi che hanno la vigilanza venatoria fra i propri compiti e l'essere titolare di licenza di caccia, è posta in termini tutt'altro che rigorosi, prevedendo la Legge esclusivamente il limite di non poter esercitare l'attività venatoria nello stesso ambito territoriale in cui si esercitano le funzioni di vigilanza, nonché ovviamente il sussistere di tali funzioni (Art. 27 comma 5). Quest'ultimo punto ha dato origine a interpretazioni di grande elasticità, quale ad esempio quella della sentenza della Prima Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione del 18 dicembre 2000, la quale ha ritenuto lecito che un Vigile Urbano esercitasse attività venatoria fuori dall'orario di servizio nel territorio del proprio comune in quanto, non essendo in quel momento in servizio egli era temporaneamente privo della qualifica di Ufficiale di Polizia Giudiziaria prevista dalla L. 157/92 per poter esercitare compiti di vigilanza venatoria e pertanto veniva meno ogni incompatibilità. A tutto quanto sopra detto si aggiungano dunque gli effetti di una impostazione eccessivamente generica del problema delle incompatibilità, che offre il fianco a una interpretazione puramente astratta, che disgiunge il ruolo giuridico dalla persona fisica come se, cessato tale ruolo, la persona che lo ricopriva cessasse di essere la stessa persona. In concreto, si immagini il Vigile Urbano del caso citato, che, trovandosi in servizio, riscontra una situazione di illecito venatorio in una persona con la quale magari aveva partecipato a una battuta di caccia il giorno prima e con la quale è in rapporti di amicizia o comunque di cointeresse. C'è tuttavia da aggiungere che la stessa sentenza, pur discutibile su questo punto, è interessante per un altro aspetto: quanto sopra detto si ritiene applicabile alle 'guardie delle provincie e dei comuni (...) a differenza di agenti appartenenti ad altri corpi, quali esemplificativamente quelli di Polizia di Stato o della Guardia di Finanza, ovvero i Carabinieri, per i quali il divieto opera comunque e dovunque, essendo gli stessi considerati dal legislatore sempre in servizio in qualsiasi parte del territorio dello Stato.' Si noti come ci siano voluti 8 anni perché si giungesse a questa semplice constatazione, e come nel frattempo numerosi agenti di polizia giudiziaria con compiti di vigilanza venatoria abbiano potuto esercitare nel contempo l'attività venatoria essendo dunque simultaneamente 'controllati' e 'controllori'. Non ci risulta inoltre che, a oltre due anni da questa sentenza, avente, notiamolo esplicitamente, valore giurisprudenziale, la situazione sia in questo senso mutata.[15] Per quanto riguarda infine la vigilanza operata da guardie volontarie ci limitiamo a notare come addirittura sia previsto che le stesse Associazioni Venatorie possano avere le proprie guardie venatorie volontarie. A quali aberrazioni possa condurre una tale impostazione è fin troppo intuitivo e non staremo a dilungarci. Per confronto, il D.L. 626/94 prevede un ben preciso regime di incompatibilità. Ad esempio il medico competente non può avere compiti di vigilanza. Si potrà obiettare che una incompatibilità quale quella sopra prospettata equivarrebbe a sostenere che vi sia incompatibilità fra l'essere Vigile Urbano e avere la patente. Il paragone non è realistico perché i cacciatori, a differenza degli automobilisti, non sono una somma di singoli individui sconosciuti gli uni agli altri ma sono nella preponderante maggioranza riuniti in associazioni, a loro volta federate fra loro. Essi sono in altre parole una entità monoliticamente organizzata a livello nazionale. Non è pensabile che un membro di una tale entità possa poi essere validamente proponibile come controllore dell'attività di altri membri di essa, un po' come impensabile è affidare la custodia delle carceri ai detenuti e sperare che non vi siano evasioni. 7. La giurisprudenza: un esempio. Da più parti si lamenta come la giurisprudenza in materia di incidenti sul lavoro sia rimasta fino a tempi molto recenti sensibilmente arretrata rispetto all'evoluzione subita nello stesso campo dalla legislazione e in particolare come in essa sia sopravvissuto il concetto di incidente come evento fatale, imprevedibile, inevitabile. Non meraviglia che una situazione analoga esista nella giurisprudenza in materia di incidenti di caccia dato che in questo contesto, come si è mostrato, non vi è stata alcuna evoluzione legislativa analoga. Citeremo un solo caso, che ci pare esemplare, relativo a un incidente mortale verificatosi durante la stagione di caccia presa in esame. Il primo settembre 2001 un cacciatore 'non prestando la dovuta attenzione ai luoghi e all'eventuale presenza di altre persone, aveva esploso un colpo di fucile calibro 270 Winchester in direzione di un gruppo di alberi e cespugli (dove presumeva ci fosse un capriolo), senza avere una totale e completa visibilità dei luoghi e senza pertanto avere la certezza che non vi fossero persone lungo la traiettoria del proiettile'. Così si legge nel capo d'imputazione riportato dal cronista, il quale prosegue: 'Così facendo aveva colpito Rodolfo Luigi Balatti, cagionandogli, per colpa, gravissime lesioni personali che ne avevano determinato il decesso per arresto cardiocircolatorio determinato da un'imponente emorragia. Le indagini svolte su questa tragedia hanno portato gli inquirenti a stabilire che l'omicidio colposo avvenne in concorso indipendente di causa con la condotta colposa della parte offesa: Balatti esercitava infatti caccia di frodo con un'arma clandestina e si era nascosto dietro gli alberi e i cespugli alla vista di possibili cacciatori'.[16] 'Concorso indipendente di causa'. Si noti come a determinare tale 'indipendenza', tale pretesa assenza di legame causa-effetto sia il solo fatto che la vittima si sarebbe volutamente nascosta fra i cespugli. Una tale motivazione sembra non prendere minimamente in considerazione l'eventualità che una persona possa essere 'nascosta dietro alberi o cespugli' anche per tutt'altre, e non premeditate ragioni. Ad esempio perché sta svolgendo un lavoro sul suolo o perché si è accasciata colpita da un malore, o semplicemente perché si è distesa a riposare, o per innumerevoli altre ragioni, come dimostrano i numerosissimi casi analoghi in cui da parte della vittima non vi era alcuna intenzionalità nell'occultarsi alla vista. Lo stesso manuale già diffusamente citato infatti definisce: comportamento assolutamente imprudente, che può portare a conseguenze assai spiacevoli quello del tiro incontrollato contro cespugli e macchioni, che potrebbero celare alla vista una persona intenta a raccogliere legna, a cercar funghi, o anche in semplice sosta all'ombra del frascame. Nulla dunque può razionalmente giustificare la gravità del gesto compiuto dallo sparatore. Questo esempio, nella sua preoccupane tipicità, mostra come tutt'ora sussista una giurisprudenza improntata a un garantismo estremamente sbilanciato nei confronti di quanti si rendono responsabili di simili fatti. 8. Conclusioni relativamente alla situazione presente. Si constata dunque come l'unica efficace misura di prevenzione razionalmente attuabile sia quella di limitare la caccia ai casi descritti a commento della norma 12) del citato manuale. Il che poi equivale a vietarla quasi ovunque. E si comincia con ciò a comprendere le ragioni della arretrata impostazione della L. 157/92 in tema di sicurezza: applicare a questo aspetto della caccia una evoluzione legislativa analoga a quella verificatasi in altri campi significa di fatto por fine alla caccia. E questa constatazione se ne porta dietro un'altra: la caccia è attività per sua intrinseca natura incompatibile con i moderni principi che vedono nella salute e nella sicurezza del cittadino un valore primario e irrinunciabile. Essa nasce in epoche remotissime e si svolge fin dalle sue origini secondo modalità affini alla guerriglia, né ha subito né può subire sostanziali evoluzioni se non in funzione della tecnologia degli attrezzi (dalla 'clava' alla carabina) rimanendo tuttavia immutata, di questi ultimi, anzi essendo amplificata dal progredire della tecnica, la intrinseca caratteristica di strumenti atti ad offendere. La caccia attraversa con ciò immutata gran parte della storia umana come lo squalo ha attraversato immutato un lungo arco di evoluzione biologica, rimane impenetrabile alla sempre maggiore attenzione che lo Stato rivolge non solo alla tutela dell'ambiente ma anche come detto alla tutela della sicurezza e della salute del cittadino, intrinsecamente estranea a tali concetti proprio perché è storicamente anteriore (e di molto) alla loro nascita e opera secondo modalità con essi incompatibili. Perché la caccia continui a sussistere la legislazione attinente deve a sua volta rimanere estranea a tali concetti, e al secondo soprattutto, deve ignorare il fatto che essi vengano sempre più acquisiti in ogni altro campo, deve in altri termini divenire un anacronismo, una aberrazione giuridica. È dunque lo stesso evolversi interno della società umana che, non solo a livello di costume ma anche a livello giuridico, pone la caccia, e relativa legislazione, sempre più ai margini, sempre più estranea, sempre più improponibile. E ciò a prescindere da motivazioni ulteriori quali possono essere quelle di stampo ambientalista o etico-animalista che in questo studio, come si è visto, non sono state nemmeno sfiorate. 9. Prospettive future. Nel momento in cui scriviamo (giugno 2003) sono in discussione in Parlamento varie proposte di legge, quasi tutte provenienti dal Centro-Destra, tendenti a una massiccia liberalizzazione dell'attività venatoria e pertanto a una ulteriore involuzione della situazione sopra descritta. Con riferimento all'insieme di tali proposte l'opposizione di Centro-Sinistra ha emesso il 26 marzo 2003 un comunicato unitario di contenuto fortemente critico, in cui vengono motivate le proprie posizioni affermando che: La fine di ogni tutela degli animali selvatici, la strumentalizzazione della caccia per un modello di società senza regole e ai fini dello smantellamento della riforma in direzione di un sistema venatorio deregolato e privatistico, l'attacco ai parchi e alle aree protette, la mercificazione e la svendita del patrimonio naturalistico, paesaggistico, ambientale, faunistico e storico-culturale italiano, il tradimento delle politiche ambientali europee e delle Convenzioni internazionali, il disprezzo degli equilibri della natura, è il rischio che corriamo di fronte alle proposte del Centrodestra che intendono infliggere un colpo di grazia all'ambiente e alla fauna del nostro Paese. Le proposte di modifica alla legge 157/92 sulla tutela della fauna e sulla regolamentazione della caccia e della legge 394/91 sui parchi, rappresentano una grave minaccia all'ecosistema nazionale. Ancora una volta si nota un'assenza: il problema dei livelli di rischio insiti nell'attività venatoria non viene nemmeno sfiorato. Il documento citato prosegue elencando in 8 punti le proposte alternative del Centro-Sinistra, le quali difendono totalmente, nella sua versione attuale, la L. 157/92, definita 'innovativa'. Anche qui nessun riferimento al problema della sicurezza. Un riferimento molto preciso lo troviamo invece in una delle sopra nominate proposte di legge, quella dell'On. Belillo, il cui art. 11 recita: «All'articolo 25 della legge n. 157 del 1992, le parole: "Fondo di garanzia per le vittime della caccia", ovunque ricorrano, sono sostituite dalle seguenti: "Fondo di garanzia" e la rubrica è sostituita dalla seguente: "Fondo di garanzia" [anziché "Fondo di garanzia per le vittime della caccia", (ndr)]». Il problema insomma viene 'trattato' sì, ma col chiaro intento di occultarlo cancellando dalla normativa ogni termine che possa in qualche modo richiamarlo.[17] Abbiamo in questo studio rilevato la forte anomalia costituita dalla persistente omissione della problematica della sicurezza, attraverso il confronto con il contesto legislativo della sicurezza sul lavoro, ma altri e ugualmente istruttivi confronti si potrebbero fare con contesti diversi. Si pensi ad esempio che nelle stesse settimane in cui si discutono le proposte di legge sopra citate lo stesso Parlamento sta varando l'ennesima modifica del Codice della Strada, avente come obiettivo dichiarato proprio il miglioramento dei livelli di sicurezza. E si pensi anche, per ulteriore e finale confronto, ai ripetuti, quasi ossessivi allarmi che da più parti amministratori locali e politici nazionali lanciano relativamente al pericolo per la salute pubblica costituito dalla presenza dei piccioni nei centri urbani. Fra i casi a suo tempo più eclatanti quello del sindaco di Venezia Massimo Cacciari. Fra i più recenti quello del senatore di Forza Italia Lorenzo Piccioni il quale, affermando che «esistono seri problemi di ordine sanitario, come la salmonellosi, l'ornitosi, la borrelliosi e la toxoplasmosi» e dunque che si è in presenza di «gravi rischi per la salute dei cittadini» ha presentato un disegno di legge volto a risolvere il problema inserendo i piccioni fra le specie cacciabili e dunque autorizzandone l'abbattimento ad opera dei cacciatori.[18] Si vede quale grave contraddizione esista in questo atteggiamento che concentra l'attenzione in maniera parossistica su un 'pericolo', se tale può essere definito, puramente potenziale (poiché non risulta che vi siano a tutt'oggi morti causati dai piccioni) proponendo come soluzione un metodo la cui attuazione comporta, essa sì, come abbiamo visto, una altissimo, ed effettivo, coefficiente di rischio. Su questa strada l'unica realistica previsione che si possa fare per il futuro è quella sintetizzata chiarmente ed efficacemente nella frase conclusiva di un recente comunicato stampa di Claudio Locuratolo, presidente della sezione laziale della Lega per l'Abolizione della Caccia: «Più piombo per tutti».[19] Ringraziamenti Si ringraziano Augusto Atturo, l'Avv. Onorina Sarlo e Massimo Rocchi per le consulenze fornite, nonché il Prof. Carlo Consiglio e Carla Carrara della LAC, Aldo Sottofattori di Rinascita Animalista, Massimo Filippi di Oltre la Specie, Massimo Tettamanti, Maria Rita Catelani dell'UNA, Luca Conti del WWF Marche per le osservazioni, i consigli o gli apprezzamenti. Note 1. Roberto Borgioni, Faina: il Wwf approfitta delle tragedie, La Nazione, 7 novembre 2001. 2. Per avere un'idea di questa entità numerica, composta, teniamolo ben presente, da uomini armati, si pensi che durante l'ultima guerra contro l'Iraq le forze anglo-americane erano composte da 270.000 uomini, appena un terzo cioé dei cacciatori italiani. 3. E in essa sta la motivazione, fra l'altro, del nostro non aver tenuto conto del fatto che alcune Regioni, sfruttando le possibilità loro concesse dall'art. 18 comma 5 della L. 157/92, hanno portato da 3 a 5 il numero di giornate settimanali di caccia concesse nei mesi di ottobre e novembre. E' ovviamente impensabile che tutti i cacciatori di tali regioni siano andati a caccia per 5 giorni alla settimana, 4 ore al giorno, ininterrottamente per 2 mesi. 4. Per l'esattezza il D. M. 13 agosto 1998, n.325 relativo alla Guardia di Finanza non fa alcuna specifica menzione di quali siano le 'particolari esigenze connesse al servizio' mentre il D. M. 29 agosto 1997 n. 338 relativo alle strutture giudiziarie e penitenziarie individua le suddette esigenze nella necessità di 'offrire il massimo della tutela contro i pericoli di fuga, di aggressione, di attentati alla incolumità del personale di vigilanza e dei detenuti, di sabotaggi di sistemi, apparecchiature ed impianti, di atti auto ed eteroaggressivi, di autolesionismo o di autosoppressione.'. Si noti come fatti di questo genere (ferimenti, omicidi, suicidi) risultino frequentemente nelle cronache in relazione al possesso di armi da caccia. 5. AA. VV. La Caccia: tutela dell'ambiente, legislazione e tecnica venatoria, Federazione Italiana della Caccia, 1979. 6. Da una mail ricevuta in data 14 giugno 2003 da Augusto Atturo della sezione Ligure della Lega per l'Abolizione della Caccia. La sentenza è la N.2387 del 4/2/2003 (Depositata il 7/5/2003), la quale fa riferimento, per la parte che qui ci interessa, alla Legge 142/90, oggi abrogata. Per l'esattezza: «La LEGGE 8 giugno 1990, n. 142 - Ordinamento delle autonomie locali - era stata più volte modificata: dal D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito con modifiche ed integrazioni dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30; dalla L. 15 maggio 1997 n. 127; dalla L. 16.6.1998 n. 191; dalla L. 18 novembre 98 n. 415; dalla L. 30 aprile 1999 n. 120; e dalla L. 3 agosto 1999 n. 265. Infine, è stata definitivamente abrogata dal Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267 "Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali" (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 227 del 28 settembre 2000 - Supplemento Ordinario n. 162)» (da una mail ricevuta in data 1 luglio 2003 dall'avv. Onorina Sarlo) del quale D.L. ci interessa qui il seguente art. 50 (Competenze del sindaco e del presidente della provincia), comma 5: 'In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Negli altri casi l'adozione dei provvedimenti d'urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali.' È scomparso dunque, rispetto alla formulazione del 1990, il riferimento a 'edilizia e polizia locale' nonché il riferimento esplicito all'obiettivo di tutela dell'incolumità dei cittadini. 7. Giuseppe Cancedda, Ha 100 anni e va ancora a caccia, La Nuova Sardegna, 16 marzo 2002. 8. Enrico Mirani, Caccia, i praticanti in aumento, Giornale di Brescia, 26 febbraio 2003. 9. Benché esuli dall'argomento del presente lavoro notiamo come il Legislatore abbia qui limitato l'uso della parola 'sport' al solo tiro a volo escludendone con ciò la caccia. 10. Si pensi, tanto per fare un esempio, che il DPR 547 del 27 aprile 1955, come modificato dal DL 242/94, giunge a prescrivere nel suo art. 13 non solo la larghezza delle porte delle uscite di emergenza ma perfino la tolleranza in meno consentita su tale larghezza. E non fa a meno di soffermarsi perfino a dare una definizione precisa del termine 'larghezza'. 11. AA. VV. La Caccia: tutela dell'ambiente, legislazione e tecnica venatoria, cit. 12. Da una mail ricevuta in data 21 marzo 2003 da Augusto Atturo della sezione Ligure della Lega per l'Abolizione della Caccia. 12b. Claudio Lattanzi, Proibire la caccia? Assurdo, non si aboliscono le autostrade per via degli scontri d'auto, La Nazione, 6 novembre 2001. 13. Dal sito web http://www.earmi.it, link: Balistica esterna. 13a. Finlandia: spara col fucile a un gallo cedrone e uccide il fratello lontano quasi due chilometri, Il Piccolo, 13 ottobre 1999. 14. Emilia-Romagna: a caccia nella nebbia, Il Resto del Carlino, 2 novembre 2001. 15. Augusto Atturo, Le incompatibilità tra attività venatoria e il ruolo di agente di polizia o guardia venatoria, Inedito, 2002. 16. Articolo di cronaca su La Provincia di Sondrio, 18 febbraio 2003. 17. A questo proposito citiamo le parole con cui Danilo Selvaggi, responsabile dei Rapporti Istituzionali della LIPU, commenta tale proposta di modifica dell'art. 25: «le 'vittime della caccia' spariscono. Il 'Fondo per le vittime di caccia' diventa fondo di garanzia. Non si morirà più sparati. Si sarà 'garantiti'. Se volete essere garantiti, fatevi sparare». Danilo Selvaggi sembra non rendersi conto di essere di fronte a un semplice adeguamento terminologico e che già oggi la situazione è quella da lui descritta come ipotesi futura. 18. Giancarla Moreo, Il senatore Piccioni (FI): «Gravi rischi per la salute dei cittadini», La Stampa, 16 aprile 2003. 19. C. Locuratolo, Parchi del Lazio: da oggi aree sprotette e pericolose, Comunicato stampa del 21 marzo 2003. Home•Archivio•Biblioteca•Links•Contatti