#SCAT! è un nuovo progetto di gattile-speciale, in un ambiente naturale per gatti bisognosi. Ci piace chiamarlo “scattile”!
L'obiettivo finale è di costruire un'area per gatti malati, anziani o diversamente abili, che nessuno vuole ("scat!" in inglese può significare anche "scappa, gatto!") ma per riuscire a mantenerli ed aiutarli efficacemente, stiamo creando una prima zona recintata con casale in legno coibentato per gatti sani, a pensione, per chi ha difficoltà a lasciare il proprio gatto per un periodo breve o a vitalizio, per sempre. Appena avremo recuperato i fondi spesi finora (circa 7000 euro), faremo subito partire i lavori del secondo scattile per gatti con FELV (leucemia felina, sono pochi gli spazi per loro). Questa è la BUONACAUSA, una raccolta fondi pubblica, per costruire con noi.
Insomma, gatti benestanti aiuteranno a vivere gatti... malestanti.
Intanto i lavori sono partiti e siamo a buon punto ma più aiuti riceviamo, prima facciamo e più bello diventa. Lo spazio a disposizione si trova nella proprietà sicura della Fondazione Vallevegan, in provincia di Roma, che al momento sta sostenendo tutte le spese. L'idea è nata dopo due eventi speciali: la rinascita di Ciccio, un ex gatto moribondo, colpito al cranio con una palata ma ora accudito, triplicato in peso e ben felice di vivere in semi-libertà in quei luoghi; la rinascita della natura dopo gli incendi dell'estate 2017 in zona, che hanno distrutto interi boschi. Eventi drammatici che fanno riflettere e che sono da stimolo per chi, come noi, come la nostra Squadra Anomala per Gatti Speciali, crea idee e si attiva.Contribuisci, partecipa, condividi, consiglia, sostieni qui: https://buonacausa.org/cause/scat (copia il link e vai!).
“#SCAT! SpecialCatsAnomalousTeam”
immagine di copertina di Giulia Frati "Minuet Firefly Illustrations"
La Valle è viva, esiste e resiste ed è sempre più bella! Questo sito non è più molto aggiornato a causa dei tanti impegni, per una scelta decrescente e perchè la comunicazione, quella online, si è inevitabilmente spostata sui social network (con moderazione), dove potrete trovare le nostre foto aggiornate e le iniziative recenti. Restano comunque attive tutte le pagine, in particolare: "DOVE SIAMO" e "COME SOSTENERCI". Per ogni cosa, i contatti ce li avete
Nuovo appuntamento a Settignano, sulle colline di Firenze, organizzato da Restiamo animali e Al Verde, stavolta assieme alla redazione di AAM TERRANUOVA, con cena-salotto e film, che si terrà
venerdì 25 Settembre 2015 al Circolo Arci di Settignano (Firenze) alle ore 20:00, costo 15 euro, prenotazione obbligatoria su restiamoanimali@gmail.com
Locandina Caccia 250915 jpegLa stagione venatoria è appena ripartita, e siccome stiamo dalla parte degli animali stavolta approfondiremo il tema della caccia e avremo cena discussione e film a tema. L’ospite della serata sarà Piero Liberati, di Valle Vegan, guardia venatoria e attivista anti caccia. Il film che proietteremo sarà
“L’ultima caccia” di Richard Brooks
un film del 1956 e che parla dello sterminio dei bisonti nel continente americano.
Sul numero di settembre di AAM Terra Nuova è stato pubblicato
il dossier IL VERO VOLTO DELLA CACCIA, un’inchiesta di Camilla Lattanzi
che affronta molti temi relativi alla caccia, alle sue nefaste conseguenze su animali umani e non umani. La questione delle armi, l’esposizione dei minori alla violenza, la condizione in cui vivono i cani da caccia, la relazione tutt’altro che casuale tra caccia e bracconiaggio, le sentenze che hanno escluso la caccia dai terreni privati e che possono servire come precedente per chi desiderasse sottrarre la propria terra dalla prepotenza delle doppiette, l’entusiasmante esperienza dell’attivismo nei campi antibracconaggio e tanto altro ancora.
Il dossier è l’estratto di un testo più lungo e approfondito in forma di e-book pubblicato da Terranuova Edizioni (in vendita al prezzo popolare 4,99 euro). Ne parleremo con l’autrice e con Piero Liberati.
L’editore regalerà una copia dell’e-book a tutti i partecipanti alla cena.
Durante tutte e due le giornate, l'intero ricavato della vendita della crema "Charity Pot" presso LUSH di Campo de' Fiori (via dei Baullari 112), andrà agli animali di ValleVegan. Inoltre ci saranno varie performances Tribal Fusion delle nostre ballerine più, forse, altre sorprese.
La scorsa settimana abbiamo sterilizzato a basso costo, tramite una convenzione, un considerevole numero di gatte randagie di paese. Purtroppo una di queste ha avuto delle GRAVI COMPLICAZIONI in seguito all'operazione e, dopo un intervento immediato del nostro veterinario, abbiamo deciso di ricoverarla alla "Clinica Veterinaria Roma Sud". Siamo contenti di aver preso questa decisione: la gatta infatti aveva una grave emorragia interna ed è stata ripresa davvero per un pelo con un intervento complesso e delle trasfusioni urgenti. Tutti insieme le abbiamo salvato la vita, ma ciò sta avendo dei costi che noi non riusciamo a colmare. Aiutateci se potete con una donazione a misura delle vostre possibilità a pagare il conto della micia in clinica. E' ancora ricoverata e al momento si stanno facendo altre trasfusioni oltre ad accertamenti per eventuali danni neurologici e alla vista. La gattina l'abbiamo chiamata GIANNA e, per garantirle una vita migliore, se tutto andrà bene, l'adotteremo noi nel nostro rifugio o troveremo per lei una sistemazione adeguata. Grazie!
Utilizzate questa pagina di BUONACAUSA.org per contribuire. Per maggiori informazioni o per pagare direttamente in clinica, potete scriverci a attivismo@vallevegan.org o chiamare il 3294955244
Da anni ospitiamo 5 testarde testudo in un laghetto, piccolo ma con tutti gli accorgimenti per le loro esigenze biologiche. Vogliamo regalare loro un ambiente molto più grande e poterne così salvare molte altre dalla cattività e dall'abbandono, che causano morte di stenti e disastri ecologici.
Con orto di lattuga very-slow-food a millimetro-zero incorporato nel recinto!
Cosa ci occorre:
- Telo impermeabile metri 14x14, costo circa euro 200.
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Piante acquatiche, termostato, ricoveri, manovalanza e... acqua ce li mettiamo noi!
Uno dei nostri veterinari è specializzato in specie esotiche.
Utilizza il banner qui su, cliccandoci sopra per aiutarci o vai direttamente a questa pagina.
DIARIO DI BORDOGiorno 31
Finalmente libere. Ce l'abbiamo fatta, spero che questa missiva vi giunga presto...
Sono sempre io che vi scrivo, Tar, la capa delle Testarde, è ormai da giorni che siamo in viaggio verso un mondo... Ehm un laghetto migliore. L'abbiamo trovato è grande, spazioso e confortevole e pare ci sia lattuga in abbondanza. Ora ci serve solo il vostro aiuto per riuscire a blindarlo così da impedire gli attacchi di quei mastodontici gulliveriani a due zampe che vivono nei pressi della nostra oasi. Allego di seguito il materiale che serve, chiuderò la mia lettera in una bottiglia e la getterò nel laghetto, con la speranza che la corrente la porti fin da voi.
. . Nel suo viaggio, Daniel Tarozzi (giornalista, scrittore e documentarista) è passato a trovarci, descrivendo nel suo libro appena uscito la vita ordinaria in Valle, in una giornata qualunque. Con orgoglio e sorpresa ma anche con un pò di imbarazzo, notiamo che il racconto "su di noi" è un lungo testo tra le oltre 500 realtà alternative da lui visitate e descritte.
"Nemmeno nelle mie più rosee aspettative potevo immaginare la quantità e la qualità delle esperienze presenti sul nostro territorio. Partivo con una visione positiva del paese reale. Torno con una visione entusiasta", scrive Daniel.
No TAV, decrescita, bioedilizia, riciclo creativo, bioregionalismo, km 0, finanza etica, beni comuni, ecovillaggi, sopravvivenza urbana, permacultura, scuola libertaria, lotta alla mafia, parto in casa, anticarceraria, guerrilla gardening, gruppi d'acquisto solidale, veganismo e molti molti altri temi affrontati dal vivo in giro per l'Italia.
Estratto da: "Lazio. E' bello abitare in una ValleVegan!". IO FACCIO COSI'. DANIEL TAROZZI, ed. CHIARELETTERE.
"Tra le persone che ho incontrato in questo viaggio, la percentuale di vegetariani o vegani è altissima, direi dal 30 al 50 per cento. Tra coloro che non hanno scelto una dieta di questo tipo è altrettanto alta la percentuale di persone che mangia carne al massimo una volta a settimana, e solo se allevata da loro o comprata da qualcuno che conoscono. Posso quindi affermare, con una certa convinzione, che nell'Italia che cambia il tema alimentare è sicuramente sentito, e la consapevolezza che un'alimentazione basata su un eccessivo consumo di carne non sia sostenibile è ampiamente diffusa. In questo contesto, piuttosto che accennare ogni volta alle scelte alimentari di questo o di quell'intervistato, ho deciso di affrontare l'argomento approfondendo l'incontro con Piero Liberati, ideatore della Fondazione ValleVegan." [...] "L'incontro è ai limiti del surreale. Come prima cosa compaiono due cani, che ci corrono incontro festosi. Poi scorgiamo un uomo, circondato da tanti cani, un gatto e, soprattutto, una pecorella! Non abbiamo dubbi, è lui." [...]
Nonostante la crisi, i partiti, le tasse… c’è un’Italia che reagisce, che non molla, che va avanti e crede nel futuro. Daniel Tarozzi ha deciso di salire sul camper e andare a scoprirla e a raccontarla. Sette mesi on the road, senza scadenze o itinerari precisi, inseguendo le esperienze di chi ci prova a cambiare vita e a non rassegnarsi al peggio. La scoperta è che si sta creando una rete diffusa dal Nord al Sud di microeconomie che valorizzano il territorio e le competenze delle persone, spesso promuovendo lavori che le statistiche nemmeno rilevano: in città, in campagna, da soli, in gruppo. Sempre all’insegna dell’ecocompatibilità, del risparmio e della qualità della vita. Contadini, inventori, imprenditori, manager, artigiani, neolaureati, artisti: le loro storie non fanno più parte dell’aneddotica ma costituiscono una realtà che va raccontata e fotografata e dimostrano che un altro Pil, più vero e di qualità, è possibile.
Ho deciso di intraprendere questo viaggio e di scrivere poi un libro che lo racchiuda per tre motivi:
1) Una motivazione professionale: sono stanco di scrivere e raccontare sul web senza incontrare realmente le persone di cui parlo, a cui penso.
2) Una motivazione ideale: ci sono molti libri che raccontano le singole esperienze, ma manca qualcuno che le metta in relazioni, le incornici, le unisca tra loro. Senza pregiudizi e senza esserne un portavoce.
3) Una motivazione personale: voglio capire se esiste davvero la possibilità di un mondo diverso o devo arrendermi alla decadenza raccontata quotidianamente dai mass media.
Il più importante scrittore americano contemporaneo, Jonathan Franzen, continua con il suo impegno per la divulgazione del fenomeno della caccia illegale al popolo alato.
Nel numero di luglio del National Geographic, nelle 20 pagine dedicate al nostro attivismo nel Mediterraneo, appare il suo ultimo articolo sul bracconaggio, accompagnato dalle splendide foto di David Guttenfelder che ne svelano la drammatica realtà. Pubblichiamo anche il video - intervista al fotografo.
Last Song for Migrating Birds
From glue-covered sticks in Egypt hang two lives, and a question: How can we stop the slaughter of songbirds migrating across the Mediterranean? By Jonathan Franzen Photograph by David Guttenfelder
In a bird market in the Mediterranean tourist town of Marsa Matruh, Egypt, I was inspecting cages crowded with wild turtledoves and quail when one of the birdsellers saw the disapproval in my face and called out sarcastically, in Arabic: “You Americans feel bad about the birds, but you don’t feel bad about dropping bombs on someone’s homeland.”
I could have answered that it’s possible to feel bad about both birds and bombs, that two wrongs don’t make a right. But it seemed to me that the birdseller was saying something true about the problem of nature conservation in a world of human conflict, something not so easily refuted. He kissed his fingers to suggest how good the birds tasted, and I kept frowning at the cages.
To a visitor from North America, where bird hunting is well regulated and only naughty farm boys shoot songbirds, the situation in the Mediterranean is appalling: Every year, from one end of it to the other, hundreds of millions of songbirds and larger migrants are killed for food, profit, sport, and general amusement. The killing is substantially indiscriminate, with heavy impact on species already battered by destruction or fragmentation of their breeding habitat. Mediterraneans shoot cranes, storks, and large raptors for which governments to the north have multimillion-euro conservation projects. All across Europe bird populations are in steep decline, and the slaughter in the Mediterranean is one of the causes.
Italian hunters and poachers are the most notorious; for much of the year, the woods and wetlands of rural Italy crackle with gunfire and songbird traps. The food-loving French continue to eat ortolan buntings illegally, and France’s singularly long list of huntable birds includes many struggling species of shorebirds. Songbird trapping is still widespread in parts of Spain; Maltese hunters, frustrated by a lack of native quarry, blast migrating raptors out of the sky; Cypriots harvest warblers on an industrial scale and consume them by the plateful, in defiance of the law.
In the European Union, however, there are at least theoretical constraints on the killing of migratory birds. Public opinion in the EU tends to favor conservation, and a variety of nature-protection groups are helping governments enforce the law. (In Sicily, formerly a hot spot for raptor killing, poaching has been all but eliminated, and some of the former poachers have even become bird-watchers.) Where the situation for migrants is not improving is in the non-EU Mediterranean. In fact, when I visited Albania and Egypt last year, I found that it’s becoming dramatically worse.
February 2012 brought eastern Europe its coldest weather in 50 years. Geese that normally winter in the Danube Valley flew south to escape it, and some 50,000 of them descended on the plains of Albania, starving and exhausted. Every one of them was exterminated. Men using shotguns and old Russian Kalashnikovs mowed them down, while women and children carried the carcasses into towns for sale to restaurants. Many of the geese had been banded by researchers to the north; one hunter told me he’d seen a band from Greenland. Although nobody in Albania is going hungry, the country has one of the lowest per capita incomes in Europe. The unusual influx of saleable geese was literally a windfall for local farmers and villagers.
The easternmost of Europe’s migratory flyways passes through the Balkans, and in Albania the Adriatic coastline, which is otherwise forbiddingly mountainous, opens into an extraordinarily rich system of wetlands, lakes, and coastal plains. For millennia birds making the northward journey from Africa were able to rest and refuel here before struggling on over the Dinaric Alps to their breeding grounds, and to stop here again in the fall before recrossing the Mediterranean.
Under the 40-year Marxist dictatorship of Enver Hoxha, totalitarianism destroyed the fabric of Albanian society and tradition, and yet this was not a bad time for birds. Hoxha reserved the privileges of hunting and private gun ownership for himself and a few trusted cronies. (To this day the national Museum of Natural History displays bird trophies of Hoxha and other members of the politburo.) But a handful of hunters had minimal impact on the millions of migrants passing through, and the country’s command-economy backwardness, along with its repellence to foreign beach tourists, ensured that its wealth of coastal habitat remained intact.
Following Hoxha’s death, in 1985, the country underwent an uneasy transition to a market economy, including a period of near anarchy in which the country’s armories were broken open and the military’s guns were seized by ordinary citizens. Even after the rule of law was restored, Albanians kept their guns, and the country remained understandably averse to regulation of all kinds. The economy began to grow, and one of the ways in which a generation of younger men in Tirana expressed their new freedom and prosperity was to buy expensive shotguns, by the thousands, and use them to do what formerly only the elite could do: kill birds.
In Tirana, a few weeks after the big February freeze, I met a young woman who was very unhappy with her husband’s new hunting hobby. She told me they’d had a fight about his gun, which he’d had to borrow money to pay for. He kept the gun in their 1986 Mercedes, and she described how she’d once watched him pull over to the side of a road, jump out of the car, and start shooting at little birds on a power line.
“I’d like to understand this,” I said.
“You won’t!” she said. “We’ve talked about it, and I don’t understand it.” But she called her husband on her cell phone and asked him to join us.
“It’s become fashionable, and my friends talked me into it,” the hunter explained to me, somewhat sheepishly. “I’m not a real hunter—you can’t become a hunter at 40. But being a new one, and feeling good about owning a licensed weapon, a very good powerful gun, and never having killed any birds before, it was fun at first. It was like when summer comes and you feel like jumping in the ocean. I would go out on my own and drive up into the hills for an hour. We don’t have well-identified protected areas, and I’d shoot whatever I could. It was spontaneous. But it gets less joyful when you think about the animals you’re killing.”
“Yes, what about that?” I said.
The hunter frowned. “I feel very uncomfortable with the situation. My friends are saying it now too: ‘There are no birds; we walk for hours without seeing any.’ It’s really scary. At this point I’d be happy if the government put a stop to all hunting for two years—no, five years—to let the birds recover.”
There would be precedent for a fiat like this: Seven years ago, when coastal drug and human smuggling became a problem, the government simply banned most private boats and yachts. But electoral power in Albania is narrowly balanced between two major political parties, each of which is loath to impose potentially unpopular regulation on an issue of minor concern to most voters.
There is, indeed, only one serious bird advocate in Albania, Taulant Bino, who is also the country’s only real bird-watcher. Bino is the deputy minister of the environment, and one morning he took me out to Divjaka-Karavasta National Park, the crown jewel of Albanian coastal preserves, a vast area of outstanding beach and wetland habitat. It was mid-March, a time when hunting is banned throughout the country, and the park (where hunting is prohibited year-round) ought to have been full of wintering and migrating waterfowl and waders. Except for one pond defended by fishermen, however, the park was strikingly devoid of birdlife; there weren’t even any mallards.
Driving along the beach, we soon saw one reason why: A group of hunters had put out decoys and were shooting cormorants and godwits. The park’s manager, who was escorting us, angrily told the hunters to leave, at which point one of them took out a phone and tried to call a friend in the government. “Are you crazy?” the park manager shouted at him. “Do you realize that I’m here with the deputy minister of the environment?”
Bino’s ministry has safeguarded, at least on paper, sufficient habitat to sustain healthy populations of migratory and breeding birds. “When conservationists saw that the economic development might hamper the biodiversity,” Bino told me, “they thought they’d better expand the network of protected areas before they were threatened with development. But it’s difficult to control people who are armed—you also need the police. We closed one area here in 2007, and 400 hunters showed up, shooting everything. The police came in and confiscated some weapons, but after two days they said to us, ‘This is your problem, not ours.’ ”
Unfortunately, the old communist joke still applies to forestry officials responsible for the protected areas: The government pretends to pay them, and they pretend to work. As a result, the laws are not enforced—a fact that Italian hunters, limited by EU regulations at home, were quick to recognize and exploit after Hoxha’s death. During my week in Albania I didn’t visit a protected area in which there were not Italian hunters, even though the hunting season had ended, even in unprotected areas. In every case the Italians were using illegal high-quality bird-sound playback equipment and shooting as much as they wanted of whatever they wanted.
On a second visit to Karavasta, without Bino, I saw two men in camouflage getting into a boat with guns, obviously hurrying to push off before I could speak to them. An Albanian helper of theirs, standing on the beach, told me that they were Albanians, but when I called out to them, they shouted back in Italian.
“OK, they’re Italians,” the helper admitted as they motored away from us. “Cardiologists from Bari, very well equipped. They were out here from dawn to midnight yesterday.”
“Do they know the hunting season is over?” I asked.
“They’re smart men.”
“How did they get into the national park?”
“It’s an open gate.”
“And who gets paid off? The guards?”
“Not the guards. It’s higher up.”
“The park manager?”
The helper shrugged.
Albania was once ruled by Italy, and many Albanians still view Italians as models of sophistication and modernity. Beyond the very considerable immediate damage that Italian tourist hunters do in Albania, they’ve introduced both an ethic of indiscriminate slaughter and new methods of accomplishing it—in particular the use of playback, which is catastrophically effective in attracting birds. Even in provincial villages, Albanian hunters now have MP3s of duck calls on their cell phones and iPods. Their new sophistication, coupled with an estimated 100,000 shotguns (in a country of three million) and a glut of other weapons that can be used opportunistically, has turned Albania into a giant sinkhole for eastern European migratory biomass: Millions of birds fly in and very few get out alive.
The smart or lucky ones avoid the country. On a beach in Velipoja I watched large flocks of garganeys fly back and forth in distress, far offshore, further exhausting themselves after crossing the Adriatic, because local hunters in well-spaced beach blinds prevented them from reaching the wetlands where they could feed. Martin Schneider-Jacoby, who was a bird specialist for the German organization EuroNatur until his death last summer, described to me how flocks of cranes, approaching Albania from the sea, divide in two by age group. The adult birds continue flying at high altitude, while inexperienced first-year birds, seeing attractive habitat below, descend until shots ring out—there’s always somebody ready to take potshots—and then rise again and follow the adults. “They’re coming from the Sahara,” Schneider-Jacoby said, “and they have 2,000-meter mountains they have to cross. They need the rest. They might still have the energy to get over the mountains, but maybe not then for successful breeding.”
Across the Albanian border, in Montenegro, Schneider-Jacoby showed me the extensive salt pans at the town of Ulcinj. Until recently, Montenegrin hunters kept the pans as empty of birds as Albania’s “protected” areas, just a few miles away, but a nonprofit, the Center for Protection and Research of Birds of Montenegro, has provided for a single ranger to report poachers to the police, and the results have been dramatic: birds as far as the eye can see, thousands of waders, thousands of ducks, all busily feeding. Spring migration, always awe-inspiring, had never seemed to me more so.
“Eurasia cannot afford a sinkhole like Albania,” Schneider-Jacoby said. “We’re too good at killing these animals, and we still haven’t learned in Europe how to have a system that will allow birds to survive. Hunting bans are the only thing that seems to work right now. If they stop the hunting here, they’ll have the best habitat in Europe. People will come to Karavasta to see the resting cranes.”
The situation in Albania isn’t hopeless. Many new hunters seem aware that something has to change; better environmental education and the coming growth of foreign tourism may increase demand for unspoiled natural areas; and bird populations will rebound quickly if the government enforces the law in protected areas. When I took the hobbyist hunter and his wife to Karavasta and showed them the ducks and waders at the one defended pond, the wife cried out with pride and happiness: “We didn’t know we had birds like this here!” (Shortly after my visit, her husband sold his gun.)
Farther south, hope is harder to come by. As in Albania, history and politics in Egypt militate against conservation. The country is nominally a signatory to several international conventions regulating bird hunting, but long-standing resentment of European colonialism, compounded by the conflict between traditional Muslim culture and the destabilizing freedoms of the West, disincline the Egyptian government to abide by them. What’s more, the Egyptian revolution of 2011 was specifically a repudiation of Egypt’s police. The new president, Mohamed Morsi, could ill afford to enforce regulations overzealously; he had a lot more urgent worries than wildlife.
In northeastern Africa, unlike in the Balkans, there is also an ancient, rich, and continuous tradition of harvesting migratory birds of all sizes. (The miraculous provision of meat accompanying the manna from heaven that saved the Israelites in the Sinai is thought to have been migrating quail.) As long as the practice was pursued by traditional methods (handmade nets and lime sticks, small traps made of reeds, camels for transportation), the impact on Eurasian breeding bird populations was perhaps sustainable. The problem now is that new technology has vastly increased the harvest, while the tradition remains in place.
The most hope-confounding cultural disjunction, however, may be this: Egyptian bird hunters make no distinction between catching a fish and catching a bird (indeed, in the Nile Delta, they use the same nets for both), whereas, for many Westerners, birds have a charisma, and thus an emotional and even ethical status, that fish do not. In the desert west of Cairo, while sitting in a tent with six young Bedouin bird hunters, I saw a yellow wagtail hopping in the sand outside. My reaction was emotional: Here was a tiny, confiding, warm-blooded, beautifully plumaged animal that had just flown several hundred miles across the desert. The reaction of the hunter next to me was to grab an air rifle and take a shot. For him, when the wagtail fluttered off unharmed, it was as if a fish had got away. For me it was a rare moment of relief.
The six Bedouin, barely out of their teens, were camped in a sparse grove of acacias, surrounded in all directions by sand roasting in September sun. They patrolled the grove with a shotgun and air rifles, stopping to flush birds from the acacias by clapping their hands and kicking sand. The grove was a magnet for southbound migrants, and every bird that flew in, regardless of its size or species or conservation status, was killed and eaten. For the young men, songbird hunting was a relief from boredom, an excuse to hang out as a group and do guy things. They also had a generator, a computer loaded with B movies, an SLR camera, night-vision goggles, and a Kalashnikov to fire for fun—they were all from well-to-do families.
Their morning’s catch, strung on a wire like a large bunch of fish, included turtledoves, golden orioles, and tiny warblers. There’s not much meat on a warbler, or even on an oriole, but to prepare for their long autumnal journey the migrants build up stores of fat, which could be seen in yellow lobes on their bellies when the hunters plucked them. Served with spiced rice, they made a rich lunch. Although orioles are reputed in the Middle East to be good for male potency (they’re “natural Viagra,” I was told), I had no use for Viagra and helped myself only to a turtledove.
After lunch a hunter came into the tent with the yellow wagtail that I’d seen hopping on the sand. It looked even smaller dead than it had alive. “Poor thing,” another hunter said, to general laughter. He was joking for a Westerner.
Because Egyptian desert travel is now by truck, rather than camel, practically every decent-size tree or bush, no matter how isolated, can be visited by hunters during the peak fall season. In some areas golden orioles are a cash crop, sold to middlemen for freezing and resale in the Persian Gulf states. The Bedouin, however, mostly eat what they catch or give it away to friends and neighbors. At prime sites, such as the Al Maghrah oasis, where hunters congregate by the dozens, a single hunter can kill more than 50 orioles in one day.
I visited Al Maghrah late in the season, but the oriole decoys (consisting typically of a dead male on a stick) were still attracting good numbers, and the hunters rarely missed with their shotguns. Given how many hunters there were, it seemed quite possible that 5,000 orioles were being taken annually at this one location. And given that there are scores of other desert hunting sites, and that the bird is a prized quarry along the Egyptian coast as well, the losses in Egypt represent a significant fraction of the species’ European population of two or three million breeding pairs. Enjoyment of a colorful species with a vast summer and winter range is thus being monopolized, every September, by a relatively tiny number of well-fed leisure hunters seeking natural Viagra. And while some of them may be using unlicensed weapons to kill orioles, the rest are breaking no Egyptian laws at all thereby.
At the oasis I also met a shepherd too poor to own a shotgun. He and his ten-year-old son instead relied on four nets, hung over trees, and they were mostly catching smaller birds like flycatchers, shrikes, and warblers. The son was therefore excited when he managed to corner a male oriole, splendidly gold and black, in a net. He came running back to his father with it—“An oriole!” he shouted proudly—and cut its throat with a knife. Moments later a female oriole flashed close to us, and I wondered if it might be the dead male’s distraught mate. The shepherd boy chased it toward a netted palm tree, but the bird avoided the tree at the last second and headed into the open desert, flying southward.
Most of the Bedouin I spoke to told me that they won’t kill resident species, such as hoopoes and laughing doves. Like other Mediterranean hunters, however, they consider all migratory species fair game; as the Albanians like to say, “They’re not our birds.” While every Egyptian hunter I met admitted that the number of migrants has been declining in recent years, only a few allowed that overharvesting might be a factor. Some hunters blame climate change; an especially popular theory is that the increasing number of electric lights at the coast is frightening the birds away. (In fact, lights are more likely to attract them.)
Environmental advocacy and education in Egypt are mostly confined to a few small nongovernmental organizations, such as Nature Conservation Egypt (which provided assistance with this story). European bird-advocacy groups expend significant money and manpower on Malta and in other European hot spots for migratory bird killing, but the problem in Egypt, which is more severe than anywhere in Europe, is largely overlooked. This represents, perhaps, the inverse of They’re not our birds: They’re not our hunters. But the political and cultural divide between the West and the Middle East is also daunting. The basic message of environmental “education” is, unavoidably, that Egyptians should stop doing what they’ve always done; and the concerns of a bird-smitten nation like England, whose colonization of Egypt is in any case still resented, seem as absurd and meddling as a Royal Society for the Protection of Catfish would seem to rural Mississippians.
Most Egyptian coastal towns have bird markets where a quail can be bought for two dollars, a turtledove for five, an oriole for three, and small birds for pennies. Outside one of these towns, El Daba, I toured the farm of a white-bearded man with a bird-trapping operation so large that, even after the families of his six sons had eaten their fill, he had a surplus to bring to market. Enormous nets were draped over eight tall tamarisk trees and many smaller bushes, encircling a grove of figs and olives; the nets were an inexpensive modern product, available in El Daba for only the past seven years. The sun was very hot, and migrant songbirds were arriving from the nearby coastline, seeking shelter. Repelled by the net on one tree, they simply flew to the next tree, until they found themselves caught. The farmer’s grandsons ran inside the nets and grabbed them, and one of his sons tore off their flight feathers and dropped them in a plastic grain sack. In 20 minutes I saw a red-backed shrike, a collared flycatcher, a spotted flycatcher, a male golden oriole, a chiffchaff, a blackcap, two wood warblers, two cisticolas, and many unidentified birds disappear into the sack. By the time we paused in the shade, amid the discarded heads and feathers of cuckoos and hoopoes and a sparrow hawk, the sack was bulging, the oriole crying out inside it.
Based on the farmer’s estimates of his daily take, I calculated that every year between August 25 and September 25, his operation removes 600 orioles, 250 turtledoves, 200 hoopoes, and 4,500 smaller birds from the air. The supplemental income is surely welcome, but the farm would clearly have thrived without it; the furnishings in the family’s spacious guest parlor, where I was treated with great Bedouin hospitality, were brand-new and of high quality.
Everywhere I went along the coast, from Marsa Matruh to Ras el Barr, I saw nets like the farmer’s. Even more impressive were the mist nets used for catching quail: ultrafine nylon netting, all but invisible to birds, that is strung on poles and reaches from ground level to 11 or more feet off the ground. The mist nets, too, are a recent innovation, having been introduced in Sinai about 15 years ago and spread westward until they now cover the entire Egyptian Mediterranean coast. In north Sinai alone, mist nets stretch for 50 miles. Along the coastal highway west of Sinai, the nets run to the horizon and pass straight through tourist towns, in front of hotels and condominiums.
Much of Egypt’s coast is, on paper, protected. But the coastal preserves protect birds only to the extent of requiring permits to erect nets for catching them. These permits are cheap and freely granted; official restrictions on the height and spacing of the nets are honored in the breach. The owners of the nets go out before dawn and wait for quail, arriving from across the sea, to come zinging over the beach and enmesh themselves. On a good day, a third of a mile of nets can yield 50 quail or more. My very low-end estimate, based on figures from a bad year, is that 100,000 quail are taken annually in Egypt’s coastal mist nets alone.
Even as quail are becoming very difficult to find in much of Europe, the take in Egypt is increasing, due to the burgeoning use of playback technology. The best system, Bird Sound, whose digital chip holds high-quality recordings of a hundred different bird sounds, is illegal to use for hunting purposes in the EU but is nevertheless sold in stores with no questions asked. In Alexandria, I spoke with a sport hunter, Wael Karawia, who claimed to have introduced Bird Sound to Egypt in 2009. Karawia said he now feels “very bad, very regretful” about it. Normally, perhaps three-quarters of incoming quail fly over the mist nets, but hunters using Bird Sound can attract the higher flying ones as well; already all the mist netters in north Sinai are doing it, some of them in spring as well as fall. Hunters on Egypt’s large lakes have also begun to use Bird Sound to capture entire flocks of ducks at night.
“It will start to affect the birds, it has to,” Karawia told me. “The problem is the mentality—people want to fish anything and hunt anything, with no rules. We already had a lot of guns before the revolution, and since then there’s been a 40 percent increase. The people who don’t have money make their own guns, which is very dangerous—it could get them three years in jail—but they don’t care. Even the kids are doing it. School starts in September, but the kids don’t start until the hunting season ends.”
On the beach in the tourist town of Baltim, I had an encounter with some of these kids. Quail are the only permissible target of mist netters, but there is always a bycatch of small birds and even of the falcons that prey on them. At sundown in Baltim, walking with a guide from Nature Conservation Egypt and an official from the local protected area, I noticed a beautiful and tiny shorebird, a little ringed plover, caught in a net in the shadow of condominiums. My guide, Wael Shohdi, began to extricate it delicately but stopped when a young man came running up, carrying a mesh bag and trailed by two teenage friends. “Don’t touch the bird,” he shouted angrily. “Those are our nets!”
“It’s OK,” Shohdi assured him. “We handle birds all the time.”
A tussle ensued as the young hunter tried to show Shohdi how to yank the bird out without damaging the net. Shohdi, whose priority was the safety of the bird, somehow managed to free the plover in one piece. But the hunter then demanded that Shohdi hand it over.
The government official, Hani Mansour Bishara, pointed out that, along with two live quail, the hunter had a live songbird in his bag.
“No, that’s a quail,” the hunter said.
“No, it’s not.”
“OK, it’s a wheatear. But I’m 20 years old and we’re living from this net.”
Not being an Arab speaker, I learned only afterward what they were saying. What I could see in the moment was Shohdi continuing to hold the plover in his hand while the hunter reached for it angrily, trying to grab it away. We were in a country where millions of birds were being killed, but I couldn’t help worrying about this individual plover’s fate. I urged Shohdi to remind the hunter that it was illegal to keep anything but quail from the nets.
Shohdi did this, but the law was apparently not a good argument to use on angry 20-year-olds. Instead, with a view to changing hearts and minds, Shohdi and Bishara made the case that the little ringed plover is an important species, found only on mudflats, and that, moreover, it might be carrying a dangerous disease. (“We were lying a little bit,” Shohdi told me later.)
“So which is it?” the hunter demanded. “A diseased bird or an important species?”
“Both!” Shohdi and Bishara said.
“If it’s true about the disease,” one of the teenagers said, “we all would have been dead years ago. We eat everything from the nets. We never let anything go.”
“You can still get the disease from cooked birds,” Bishara improvised.
My concern about the plover deepened when Shohdi handed it over to the hunter, who (as I learned only subsequently) had sworn by Allah that he would release both it and the wheatear, just not while we were watching.
“But the National Geographic needs to see that they really are released,” Shohdi said.
Becoming even angrier, the hunter took out the wheatear and flung it in the air, and then did the same with the plover. Both flew straight to some of their fellows, farther down the beach, without looking back. “I only did it,” the hunter said defiantly, “because I’m a man of my word.” There wasn’t much more than one large bite of meat on the two birds put together, but I could see, in the hunter’s bitter expression, how much it cost him to let them go. He wanted to keep them even more than I wanted to see them freed.
Before leaving Egypt, I spent some days with Bedouin falcon trappers in the desert. Even by Bedouin standards, falcon trapping is a pursuit for men with a lot of time on their hands. Some have been doing it for 20 years without catching either of the two prized species, saker falcons and peregrine falcons, that are prized by middlemen catering to ultra-wealthy Arab falconers. The saker is so rare that not more than a dozen or two are captured in any given year, but the size of the jackpot (a good saker can fetch over $35,000, a peregrine over $15,000) entices hundreds of hunters into the desert for weeks at a time.
Falcon trapping requires the cruel use of many smaller birds. Pigeons are tied to stakes in the sand and left in the sun to attract raptors; doves and quail are outfitted with harnesses bristling with small nylon nooses in which sakers and peregrines can get their feet stuck; and smaller falcons, such as lanners or kestrels, have their eyelids sewn shut and a weighted, noose-laden decoy attached to one leg. Hunters drive around the desert in their Toyota pickups, visiting the staked pigeons and stopping to hurl the disabled kestrels into the air like footballs, in the hope of attracting a saker or a peregrine—a blinded, weighted kestrel can’t fly far. The hunters also often tether an unblinded falcon to the hood of their trucks and keep an eye on it while they speed through the sand. When the falcon looks up, it means that a larger raptor is overhead, and the hunters leap out to deploy their various decoys. The same routine is followed every afternoon, week after week.
One of the two most heartening things I witnessed in Egypt was the rapt attention that falcon hunters gave to my paperback field guide, Birds of Europe. They invariably clustered around it and turned its pages slowly, back to front, studying the illustrations of birds they’d seen and birds they hadn’t. One afternoon, while watching some of them do this, in a tent where I was offered strong tea and a very late lunch, I was stabbed with the crazy hope that the Bedouin were all, without yet realizing it, passionate bird-watchers.
Before we humans could be served lunch, one of the hunters tried to feed headless warblers to the blinded kestrel and the blinded sparrow hawk that were in the tent with us. The kestrel ate readily, but no amount of pushing the meat into the sparrow hawk’s face would induce it to eat. Instead, it busied itself with pecking at the twine that bound its leg—futilely, it seemed to me, at least until after lunch, when I was outside the tent and letting the hunters try out my binoculars. All of a sudden a shout went up. I turned and saw the sparrow hawk winging purposefully away from the tent and into the desert.
The hunters immediately gave chase in their trucks, in part because the bird was valuable to them but also in part—and this was the other heartening thing I witnessed—because a blinded bird couldn’t survive on its own, and they felt bad for it. (At the end of the falcon season, hunters unsuture the eyelids of their decoy falcons and release them, if only because it’s a bother to feed the birds year-round.) The hunters drove farther and farther into the desert, worrying about the sparrow hawk, hoping to spot it, but I personally had mixed feelings. I knew that if it got away, and if no other group of hunters happened upon it, it would soon be dead; but in its yearning to escape captivity, even blinded, even at the cost of certain death, it seemed to embody the essence of wild birds and why they matter. Twenty minutes later, when the last of the hunters returned to the tent empty-handed, my thought was: At least this bird had a chance to die free.
ValleVegan partecipa attivamente al film - documentario "Emptying the Skies" sull'antibracconaggio, presentato nei più importanti festival di cinema per documentari (Sunshine, Sheffield ecc.).
Dai produttori americani di Cronenberg, West e Gordon. Con Jonathan Franzen (e Sergio Coen, Andrea Rutigliano e Piero Liberati)! Riprese girate in tutto il Mediterraneo ed... a ValleVegan!
Emptying the Skies, la lotta al bracconaggio nel docufilm di Jonathan Franzen Il film, coprodotto dallo scrittore e ispirato a un suo reportage per il New Yorker sull'uccellagione in Europa, sarà proiettato stasera allo Sheffield Docufestival. Protagonisti tre volontari italiani del Comitato contro la strage di uccelli. "Il mio modo di sostenere questi ragazzi"... di MARGHERITA D'AMICO
[di Maria Teresa de Carolis] Vallevegan è un'oasi di pace per gli animali salvati dallo sfruttamento degli allevamenti: la valle degli animali liberi. L'articolo su Terra Nuova Marzo 2013 vi racconta questo esempio di utopia concreta.
Ci sono luoghi dove la violenza viene considerata un diritto, dove la tortura è la quotidiana manifestazione dell'umana "sopravvivenza", dove il buio nasconde il sangue e le grida di dolore si mescolano alla nebbia. Luoghi dove la vita viene considerata profitto, e dove milioni di esseri ogni giorno subiscono la condanna e il martirio per poi finire sul banco frigo di un negozio e di un supermercato.
Confezioni senza passato,impersonali vaschette di cibo per umani. Ci sono però anche luoghi - purtroppo ancora in esigua minoranza, ma una minoranza in crescita - dove l'amore cancella il buio, rischiara il dolore e solleva qualche anima da un destino senza speranza.
Sono posti speciali, dove vivono animali umani e non, e dove il diritto alla vita è fondamento e motore.
Questa è la storia di uno di questi luoghi speciali. Si chiama Vallevegan, è nata nel 2006 come fondazione e ha trovato sede sulle colline vicino Roma: lì, animali di ogni specie vengono ospitati e accuditi senza che gli venga chiesto niente in cambio.
Si tratta insomma di un'a-fattoria per eccellenza: non si alleva per profitto e non si sfrutta, ma si accoglie e si cura ogni individuo, umano e non, in un ambiente immerso in una decina di ettari di bosco.
Vallevegan infatti è nata con l'obiettivo di promuovere la liberazione animale attraverso uno stile di vita vegan, che come sappiano non significa solamente eliminare i derivati animali dalla propria dieta, ma abbracciare una visione antispecista, che rifiuta di portare l'uomo al di sopra di tutte le specie...
Editoriale pubblicato sul bollettino primaverile del CABS (Committee Against Bird Slaughter) - 2012
di Maria Teresa de Carolis
Raccontare se stessi è impresa difficile, a volte sotterranea e faticosa; raccontare un amico è un viaggio verso un’ isola, verso le stelle, verso un mondo diverso fatto di curiosità e conoscenza. Raccontare Piero vuol dire sistemare nella mia testa tutto ciò che ricordo: i campi antibracconaggio, i suoi trascorsi, le sue imprese, le telefonate fugaci o gli sms brevi e pericolosi, perché mi mettono in allarme. Voglio mettere ordine a questi ricordi, raccontando qualcosa, brevi appunti di recenti vicende.
Quando si parla di campi antibracconaggio, ad alcuni – forse - potrebbe venire in mente una sorta di campeggio naturalistico, un’attività di osservazione e monitoraggio, magari con lanterne nel buio dell’alba o con cannocchiali e fotocamere all’avanguardia. In realtà un campo antibracconaggio non è fatto solo di questo, ma di appostamenti, di fughe, di soste nella notte al freddo, nascosti dietro cespugli. È fatto di pedinamenti e investigazioni.
Da oltre 10 anni Piero Liberati, amico… praticamente fratello, compie salti, blitz, corse tra le isole del mediterraneo, e non solo. Ponza, luogo strategico per gli uccelli migratori, è ormai il punto chiave di campi ed attività. Le specie più cacciate a fucilate sono quaglie e tortore ma nelle trappole cadono piccoli passeriformi tra cui monachelle, balie, pettirossi, stiaccini. Ponza vessata dalla ignoranza e dalla prepotenza. Nonostante la ferocia del bracconaggio che affligge l’isola, Ponza è anche un luogo di infanzia e ricordi, quando Piero accompagnava sua madre, insegnante di lettere, sull’isola e già allora osservava il cielo, rapito dalla bellezza della natura, dal mare che lambiva le rocce e dagli uccelli che coloravano l’aria. L’ improvvisa nevicata del gennaio 1985 è un ricordo vivido al quale Piero associa i suoi viaggi per raggiungere l’isola. Vista dal traghetto l’isola di Ponza è un insieme meraviglioso di vegetazione e rocce, un punto nel mare, un’oasi accogliente e profumata; ma come purtroppo a volte accade, la bellezza cela infamie e degrado, nasconde crudeltà ed illegalità: Ponza è l’isola incantevole dove si spara tutto l’anno, dove i bracconieri, spesso con regolari permessi di caccia, nascondono le armi nelle grotte, recuperandole all’alba, dirigendosi nell’oscurità della macchia, aspettando volatili nel buio. È l’isola delle trappole, dove gli orti nascondono gli inganni, dietro piantine di fave o cumuli di erbacce che fanno da fortino per qualche schiaccia. E solo nella notte gli inganni possono essere svelati.
I richiami elettrici scattano sempre alla stessa ora e fanno da eco agli insetti che ignari cadenzano col loro canto l’inizio del giorno. Ponza, che inonda di fragranze la notte, è macchiata dalla ferocia dei “soliti”. Nel 2005 Piero, insieme alla sua compagna e volontaria, andò a parlare con il Preside della scuola Media, tesserato ad una associazione ambientalista; seguì una illuminante cena con altri professori con i quali si concordò un incontro per i ragazzi, durante il quale si parlò del bracconaggio e dei danni gravissimi che esso produce. Fu un’azione coraggiosa: molti di quei ragazzi probabilmente avevano un genitore o un parente cacciatore in casa e quindi la prospettiva dalla quale guardare quella “tradizione” poteva finalmente cambiare. Una professoressa, in seguito, riuscì a scovare quattro trappole in una zona dell’isola. La scuola, dunque, come punto di partenza per la coscienza di futuri adulti, che guardano con occhi diversi la fauna dell’isola, diventata un luogo da proteggere e non da violare. In questo panorama i blitz sono il pensiero ricorrente di Piero, costituiscono la forte tenacia nello scovare i bracconieri.
Ricordo il campo del maggio dell’anno scorso, al quale partecipai e soprattutto le fughe dai bracconieri che ci inseguivano nella notte, le camminate interminabili al buio affinché nessuno ci potesse vedere, i chilometri in salita per arrivare alla Piana d’Incenso, dove la nostra presenza sarebbe stato il deterrente migliore per disarmare quegli individui assetati di sangue. Ogni anno la determinazione e la presenza costante si rinforza.
Quest’anno Ponza è stata una meta ricorrente; la notte tra il 10 e l’11 marzo una corsa in macchina ed un fugace appostamento notturno: Piero, Antonella, Marco e Susanna, attivisti del CABS Italia, per scovare quattro luoghi con trappole, di cui uno mai individuato prima. Quando questo succede le informazioni vengono comunicate tempestivamente al Corpo Forestale.
Dal primo al 5 aprile, Piero e Andrea sono tornati sull’isola, i loro metodi “segreti” hanno dato frutti inaspettati: l’individuazione e successiva denuncia di cinque trappolatori e l’incontro fatale con il peggiore bracconiere dell’isola, lo stesso che l’anno precedente aveva inseguito e percosso due volontari, di cui uno minorenne (mio figlio). Il tipo, che chiameremo “Il Losco”, passeggiava col suo fucile in spalla, all’alba di un giorno qualunque – non in periodo venatorio - ; quel giorno qualunque è diventato il palcoscenico di un’ azione brillante, catturato infatti dagli sguardi di Piero e Andrea, il bracconiere è stato “incastrato” ed affrontato alle prime luci dell’alba. Naturalmente i “coraggiosi bracconieri” non sono mai soli, hanno sempre qualche amico nei paragg, che li possa assistere nell’eventualità di essere scoperti. Altri quattro compari, infatti, sono subito accorsi, tra cui un improbabile quanto grottesco Dj trash dell’isola. In questa circostanza Piero e Andrea hanno sperimentato le loro doti migliori di diplomazia e sangue freddo , affrontando i bracconieri con calma e controllo. Naturalmente un’azione di tale successo ha spinto Piero ed Andrea, insieme ad altri volontari italiani del CABS, Stefano e Fabio, ad andare oltre: perché non recarsi ad Ischia, dove i campi antibracconaggio negli ultimi anni erano stati meno intensi?
Così anche quest’isola diventa meta di appostamenti. Ischia è una piccola isola ai confini col Golfo di Napoli, isola splendida che nella mente di Piero chissà quali oscurità nascondeva. Appena arrivati Piero ed Andrea sono stati accolti da alcuni volontari di una associazione partner del CABS: Lina e Luigi, attivisti ed esperti del territorio, preziosi aiuti per le incursioni. Gli obiettivi di un campo sono sempre gli stessi: scovare trappole, reti da uccellagione e luoghi di appostamento dei bracconieri.
Le “Ischitane” sono trappole che prendono il nome dall’isola, piccoli congegni di ferro fatti a mano, armati con una camola e pronti a scattare in maniera letale alla prima beccata di un uccellino. Durante la sosta ad Ischia ne sono state individuate 150 e, per la prima volta, sono state trovate anche due maxi trappole, pericolose anche per l’uomo, probabilmente usate per la cattura del coniglio selvatico. Un bracconiere, che per anni esercitava il suo “potere” senza mai essere scoperto, soprannominato “O’ Tossico”, è stato individuato e denunciato. La costanza premia, si sono rinvenuti due bauli per fucili murati in una roccia e centinaia di cartucce pronte all’uso. E’ un lavoro di pazienza, dove la presenza e l’attenzione portano a sicuri risultati.
Ischia è così [ri]entrata ufficialmente nel gruppo di isole dove i campi antibracconaggio sono l’obiettivo per l’osservazione di un fenomeno da controllare e combattere. Dall’anno prossimo, infatti, si organizzeranno campi strutturati con volontari e date precise. Ponza rimane comunque il luogo di attenzione costante, dove la presenza dei volontari è una tradizione. Recentemente Catia della LAC, ha organizzato una bellissima iniziativa nelle scuole Pontine, invitando gli alunni a far volare nel cielo aquiloni, invadendo pacificamente le zone di appostamento dei bracconieri, per contrastare con i colori la violenza degli spari.
Il 10 aprile Piero ed Andrea sono tornati a Ponza e, noleggiato uno scooter, hanno girato in due ore l’intera isola, controllando velocemente la situazione, per verificare se qualcosa fosse cambiato. Per fortuna la passeggiata su due ruote è stata una semplice “promenade”: nessun sito attivo, nessuna trappola, nessuno sparo. I campi antibracconaggio sono il progetto di ogni singolo istante, là dove il significato di “legalità”, è solo sottilmente connesso ad un senso di giustizia umana, ma fortemente collegato al diritto di esistere per ogni essere ed ogni abitante del pianeta.
Finalmente abbiamo una bozza di ambulatorio; lindo, casto e puro! Abbiamo realizzato più progetti in due persone, senza soldi, in pochi mesi (in questo caso soli due giorni!) che...
Riutilizzando materiale riciclato e, soprattutto, una vecchia stanza dismessa, trovata così com'era, abbiamo creato un ambiente facilmente lavabile dove ospitare animaletti appena recuperati e fare una piccola degenza e un primo soccorso. Tutto questo senza dimenticare che ogni animale passa prima, durante e dopo da un vero studio veterinario.
Abbiamo la possibilità e l'esperienza per ospitare maiali come compagni di vita nel nostro rifugio, rispettandone le loro esigenze biologiche e senza che venga fatto loro del male. Siamo vegani, quindi non utilizziamo in alcun modo alimenti e prodotti di origine animale. Contattaci, inviandoci i tuoi dati, per avere informazioni tramite la mail attivismo@vallevegan.org o telefono 3294955244. Il servizio è chiaramente a pagamento come una vera e propria pensione temporanea o vitalizio. Altre indicazioni (statuto, luogo, attività) sono su questo sito.
Pubblicato da Piero il 21/03/2012 alle 15:16:33, in anti caccia, letto 5176 volte
All’isola del Giglio è bello smarrirsi, perdersi passeggiando e guardando un mare stupendo che accarezza le coste, perdersi nei borghi; la chiamano l’isola dei velieri, dove la tradizione del mare si arrampica sulle rocce e sui pendii. Ma questo posto d’incanto nell’Arcipelago Toscano, è il luogo di un efferato bracconaggio tutto l’anno. Pochi giorni fa un gruppo di 20 volontari, coordinati da Piero Liberati, Fondatore di Vallevegan, ha trascorso qualche giorno nell’isola dedicando notte e giorno all’attività di antibracconaggio. Il campo di quest’anno è stato volutamente definito “didattico” per formare persone che siano capaci di gestire e affrontare campi più impegnativi come quelli di Ponza, Malta, Cipro, le valli bresciane ed il cagliaritano.
VIDEO IN VERSIONE INTEGRALE
L’isola del Giglio nasconde un oscuro e reiterato bracconaggio, fatto di trappole e di strumenti di tortura per piccoli animali che vengono spietatamente uccisi tutto l’anno. Le trappole in questione sono cappi di acciaio nei quali rimangono inesorabilmente bloccati ed uccisi i conigli, addirittura girava voce che il coniglio cacciato di frodo si vendesse illegalmente a 10 euro al chilo! Quindi approfondendo l'informazione ho scoperto che il coniglio selvatico è una "prelibatezza" dell'isola, che molti ristoranti lo hanno nel menu, come il ristorante Da Maria a Giglio Castello, viene anche citato sul sito Borghitalia.it, dove scrivono: "Suggeriamo il coniglio selvatico alla cacciatora, cucinato con pomodoro, spezie che crescono nel fitto della macchia mediterranea e un po’ di peperoncino (www.borghitalia.it/html/borgo_it.php?codice_borgo=545 e link in basso*). Ci sono poi le cosiddette “schiacce”, grandi pietre che vengono posizionate sollevando la sommità con un bastoncino e sotto le quali muoiono schiacciati piccoli roditori e finanche uccelli, attirati da un a piccola esca.; ci sono poi le Sep, piccole trappole con un meccanismo a molla, che sono utilizzate per i passeriformi. Le trappole in Italia sono severamente vietate, sono un metodo non selettivo di cacciare, fuori periodo di caccia soprattutto. Sono stati avvistati anche appostamenti di caccia che non venivano rimossi, quindi presumibilmente utilizzati anche fuori stagione. Chi posiziona le trappole sono spesso piccoli coltivatori della zona, con regolare permesso di caccia, che si giustificano dichiarando le trappole il metodo migliore per difendere i loro orti; alcuni vigneti dell’isola sono considerati di pregio e assai rari, producono un vino rinomato e spesso il giustificativo all’attività costante di frodo è quello di “proteggere” il vanto dell’isola.
La cosa suona come un sospetto tentativo di dare la spiegazione più banale ad una sporca ed evidente caccia di frodo. Nei giorni di attività le trappole scovate sono state centinaia, decine i conigli trovati morti intrappolati, a volte scheletriti; le trappole infatti vengono posizionate e “dimenticate”. Negli anni la situazione è notevolmente peggiorata, da che se ne trovavano raramente e nell’ordine di un centinaio al giorno, si è passati ad almeno 300, tra cappi, schiacce e sep. La Forestale ha un presidio fisso sull’isola ma evidentemente non si occupa del bracconaggio; prova ne è la sfacciata presenza di trappole anche visibili dalla strada che vengono ignorate; la Guardia Forestale presidia l'isola senza intervenire in una situazione tanto grave, presidiano ed osservano le attività dei volontari, questa è la realtà. L’antibracconaggio è una attività intensa tutto l’anno, soprattutto nelle piccole isole: Capri, Ponza, le pelagie ed il Giglio, dove la “tradizione” della caccia di frodo è una realtà mai sopita e per la quale i cacciatori-bracconieri diventano aggressivi e pericolosi, arrivando ad aggredire i volontari. Notizia infatti delle ultime ore: un volontario presente sull'isola per un successivo campo antibracconaggio, è stato aggredito da un bracconiere con una pala e portato al Pronto Soccorso, se la caverà con sei giorni di prognosi; in questo caso la Guardia Forestale è intervenuta, vista la gravità dell'episodio, è chiaro che servano atti criminosi palesemente illegali per far sì che un'Istituzione faccia il suo dovere.
I campi vengono totalmente gestiti da volontari autofinanziati: si acquista materiale per filmare, attrezzature per l’osservazione, ci si paga le spese di vitto ed alloggio. In particolare il campo dell’isola del Giglio è nato proprio da una idea di Piero Liberati e del suo amico attivista Marco Arceri, quando nel 2008 erano alla ricerca di isole che si trovassero su rotte migratorie importanti, il Giglio era un’ isola “vergine” in fatto di attività antibracconaggio; quando Piero e Marco si trovarono sull’isola però si resero conto delle attività di frodo che avvenivano, non nei confronti degli uccelli, ma dei conigli che venivano e vengono cacciati tutt’ora in maniera costante ed illegale.
Dal 2010 al 2011 i campi sull’isola sono stati organizzati da altre associazioni e quest’anno Vallevegan è tornata al Giglio pensando di trovare una situazione migliorata, visto che la presenza costante dei volontari durante i periodi primaverili era diventata un deterrente per i bracconieri, ha avuto purtroppo l’amara sorpresa di rivelare una situazione disastrosa di abbandono e mancanza di attenzione,
Alcuni numeri delle trappole rimosse in 4 giorni di attività, per dare un’idea:
1500 lacci per conigli, principalmente intorno agli orti;
120 schiacciate per passeriformi, che loro spacciano trappole per roditori, ma sono stati filmati e fotografati uccelli nei pressi delle trappole, ciò rende evidente che le esche servissero per attirare non certo topi;
alcuni lacci per mufloni;
Sep per gli uccelli e veleno per topi, ovunque sull’isola.
La perplessità nasce laddove tutto ciò avviene addirittura in un Parco Nazionale, del quale per anni è stato presidente Mario Tozzi, il geologo e conduttore televisivo, il quale pur sapendo quale losca attività illecita si consumasse sul suolo del Giglio, non ha mai supportato le attività di antibracconaggio, considerandole forse di poco conto; oltretutto Tozzi possiede anche una casa sull’isola. Adesso da ex presidente del parco grida allo scandalo quando si parla del naufragio della Costa Concordia, affermando che da tempo dichiarava la pericolosità della vicinanza delle navi alle coste. Certo, ora che il mastodontico relitto della Concordia è coricato, accasciato sul fianco di una lussuosa ma derelitta apparenza, là in attesa di essere rimossa, chissà quando, e ricorda le incoscienti quanto inutili “performances” di una società votata al lusso, si grida contro un fenomeno, si urlano i pericolo della fuoriuscita del carburante che potrebbe avvelenare irrimediabilmente il mare circostante. Ma gridare contro l’uccisione di migliaia di animali l’anno, nella più completa illegalità, sul suolo di un Parco protetto, potendo immaginare cosa succede in altri luoghi non canonicamente definiti “parchi”, questo no, non si è mai fatto; indignarsi per il veleno del bracconaggio no, questo non si è mai fatto. Addirittura ho letto un suo intervento riguardo specie a rischio bracconaggio come l’Orso Marsicano, ma sul bracconaggio sulla sua isola non sono riuscita a trovare nulla. E’ compito allora di gente coraggiosa che affronta anche lo sdegno ed il “fastidio” degli abitanti dell’isola, che urlano ai volontari di vergognarsi, di essere vagabondi, di tornare a casa lasciandoli alle loro illecite attività ed addirittura di finire come gli animali morti nelle trappole. Cosa pensare allora di questa Italia? Che è un’Italia di cacciatori e bracconieri, che praticamente è la stessa cosa; un’Italia dove la legalità è un privilegio e purtroppo non solo per gli umani. Marzo ormai assume il significato dell’inizio di un’altra stagione, chiusa quella della caccia si apre quella del bracconaggio, visto che cacciare 4 mesi l’anno è poco per uno sport tanto divertente! La caccia è un diritto che viene difeso, anche quando si pratica illegalmente, questo mi viene da pensare. Mi consolo con l’episodio che Piero Liberati mi ha raccontato del coniglio fortunato scampato ad una trappola e portato in salvo con un taxi in una zona dove potesse tornare libero, e come lui altri conigli e creature che fortunosamente si sono trovate quel giorno nel luogo dove persone coraggiose rinunciavano al sonno per “ripulire” dal degrado un’isola meravigliosa, sporcata dalla crudeltà della caccia.
Per chi volesse contribuire a finanziare i campi antibracconaggio può utilizzare come riferimento il Cabs ( Committee Against Bird Slaughter), organizzazione che si occupa della difesa della fauna selvatica, uccellaggione, ed organizza campi antibracconaggio in tutta Europa, visitando questa pagina http://www.geapress.org/cabs/.
GEAPRESS – Dodici giorni sotto la tormenta. Isolati. Tra i fiumi e le valli di Bellegra e Rocca Santo Stefano. Ad un' ora da Roma, ma sommersi dalla neve. Valle Vegan, luogo di natura e di libertà, ispirata all’antispecismo e alla liberazione animale, ma anche luogo di riscatto dai precedenti usi. Ovvero allevamento, caccia e macellazione. Un luogo d’incanto che diventa realtà.
Poi la tormenta ha sopito tutto. Momenti belli, nonostante ciò, ma anche apprensioni. Specie per i tanti abitanti, pennuti e pelosi, che per lunghi giorni hanno vissuto in beata tranquillità, ignari delle preoccupazioni dei tre attivisti rimasti a lume di candela.
Lunghissime camminate tra la neve e poi, quando la macchina dei soccorsi finalmente si è messa in moto, l’arrivo dell’elicottero del Corpo Forestale dello Stato. Cibo per tutti. Animali umani e non. Quanto è bastato per arrivare fino a tre giorni addietro, quando finalmente a Valle Vegan è arrivata la corrente elettrica. Sei chilometri di strada che separano dal paese più vicino. Due di questi, ancora oggi, bloccati dalla neve. . . VIDEO . .
Ma come hanno vissuto per dodici giorni tre persone, 11 maiali, 10 capre, varie pecore, cani, conigli, oche ed altri scampati dai maltrattamenti dell’uomo?
“Noi molto bene, con momenti anche belli attorno al fuoco con una tisana calda – riferisce a GeaPress Piero Liberati di Valle Vegan – Poi, dopo qualche giorno, è arrivato un elicottero. A bordo c’era un equipaggio interforze. Forestali, carabinieri e poliziotti. La sorpresa più grande è stata quando abbiamo visto scritto negli scatoli “cibo vegan”. Ci hanno poi detto che a sottolinearlo erano stati gli abitanti dei paesi attorno. Si erano preoccupati per noi e si sono anche preoccupati di sottolineare che siamo tutti vegani“.
Poi un successivo passaggio. Un secondo elicottero con a bordo sempre un equipaggio interforze. Questa volta il cibo era veramente per tutti. Fieno, granaglie, crocchette per cani.
“In realtà non eravamo molto preoccupati per noi – spiega Piero Liberati – anche se ci ha fatto molto piacere sapere che le persone, in quei giorni di totale isolamento, si erano interessate. Per lo stile di vita che abbiamo scelto siamo autosufficienti, ma per tutti gli altri che vivono a Valle Vegan le cose sono diverse. E’ crollato il tetto del recinto di due galli e dei conigli. Per i cani, le capre, gli stessi maiali abbiamo dovuto faticare non poco, ma l’elicottero ha poi rimesso tutto a posto “.
Prima, però, sei chilometri a piedi sotto la tormenta. Poche persone, ognuna con in spalla 25 chili di cibo. Strada sommersa da un metro e mezzo di neve e visibilità molto ridotta. Non sono mancati momenti di apprensione, come le cadute anche rovinose. Almeno per ora, però, la strada è tornata in parte praticabile.
Nel sito web di Valle Vegan, una traccia di quanto successo. La cena benefit, è rinviata “causa maltempo”. Valle Vegan è però aperta, ancor di più adesso, per chi volesse dare una mano. Nei prossimi giorni ci sarà parecchio da fare anche se già qualcosa, nei momenti di intenso freddo, è stata costruita. Casette. Ma proprio tante casette. Per i pettirossi (c’era pure un giovane, ci spiega Piero) cinciarelle, merli, cornacchie, scriccioli, e poi il codirosso (spazzacamino, sottolinea sempre Piero), la ballerina bianca e altri passeriformi arrivati all’improvviso in cerca di un ricovero.
Valle Vegan, dagli abitanti del posto, è ben voluta. Siamo certi che due chilometri di strada da percorrere a piedi, per chi vorrà rimboccarsi le maniche e andare a dare una mano, non saranno un impedimento. Pettirossi, pecore, cinciarelle, galline e Bastian (il maiale un po’ raccomandato, fatto entrare in casa), ringraziano anticipatamente.
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