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NEW YORK—Per due anni niente più nuovi «fast food» a South Los Angeles. Se martedì il consiglio comunale voterà l’ordinanza presentata da Jan Perry, attivissima amministratrice del distretto più popoloso e povero della metropoli californiana, per la prima volta le grandi catene della ristorazione industriale—da McDonald’s a Pizza Hut, da Taco Bell a Burger King — dovranno fronteggiare in una grande città americana un veto all’apertura di nuovi esercizi per motivi legati alla salute dei cittadini. Nell’America che non cucina più e consuma cibi troppo grassi e zuccherati, l’obesità è infatti ormai diventata una vera e propria epidemia. E South Los Angeles è uno degli epicentri di questa crisi.
Fin qui ben poche comunità hanno osato sfidare le multinazionali del cibo: Concord in Massachusetts e Calistoga, una cittadina della Napa Valley, hanno messo al bando tutti i «fast food», ma per motivi architettonici: non vogliono «megamangerie » che rovinerebbero il fascino dei loro centri storici ben preservati. L’anno scorso Joel Rivera, che a New York è capo della maggioranza in consiglio comunale e presidente della Commissione Sanità, ha tentato senza successo di bloccare la crescita esponenziale della ristorazione industriale in una metropoli anch’essa afflitta, nei quartieri poveri, da obesità e diabete ormai a livelli di emergenza. Ora ci prova Los Angeles: nella parte meridionale della città, quella con la maggior concentrazione di «fast food», gli adulti considerati patologicamente obesi sono oltre il 30 per cento, rispetto a una media nazionale del 21 per cento. Molti considerano quella che verrà votata dopodomani una misura demagogica e una manifestazione d’impotenza: non sarà certo una moratoria di due anni nell’apertura di nuovi punti di ristorazione a modificare i costumi alimentari della gente in un quartiere nel quale l’arteria principale, Figueroa Street, allinea 20 fast food in appena 400 metri.
Non è nemmeno detto che alla fine la sospensione delle licenze venga effettivamente applicata. Quella dei «fast food» è ormai un’industria potente, con un giro d’affari di 134 miliardi di dollari l’anno, che ha dato vita a una lobby molto aggressiva. Ogni volta che la politica cerca di porre limiti alla vendita di cibi industriali nelle scuole, di vietare la pubblicità televisiva di questi prodotti o l’uso dei grassi «trans» nella preparazione dei pasti, schiere di consulenti si alzano per protestare contro i regolatori, definiti «food nazi », nazisti del cibo, e per rivendicare il pieno diritto del cittadino di scegliersi il pasto che preferisce: sia esso un’insalata o un superhamburger da 2.000 calorie. Anche a Los Angeles, alla vigilia del voto, si è mobilitata la schiera dei consulenti. «Come si fa a concedere licenze solo ai ristoranti nei quali i clienti stanno seduti e vengono serviti ai tavoli?» protesta Dennis Lombardi, responsabile delle Foodservice Strategies alla WD Partners. «È come proibire di vendere Chevrolet perché si vuole che la gente compri Mercedes».
Ragionamento rozzo, ma dietro il quale c’è un pezzo di verità: se i quartieri nord della città — quelli ricchi di Beverly Hills, Santa Monica e Hollywood — sono pieni di ristoranti tradizionali mentre a sud imperversano le «mangerie» industriali, ciò non dipende dalla perfidia delle multinazionali dei pasti, ma dalla domanda di una popolazione più povera che trova nei «fast food» cibo gustoso che costa poco in ambiente nel quale spesso ci sono anche giochi per i bimbi che chi torna tardi dal lavoro non riesce a portare al parco. Per modificare questa situazione bisognerebbe cambiare la cultura alimentare degli americani e sradicare la povertà. Del resto anche l’industria i suoi sforzi li ha fatti: negli ultimi anni ha smesso di pubblicizzare in tv cibi destinati ai bambini ad alto contenuto di zucchero e grassi, ha accettato di vendere nelle scuole succhi invece di bibite gasate e merendine a base di frutta invece di quelle fritte.
Convinte che i giovani ingrassino non solo per quello che mangiano, ma anche perché si muovono poco, le imprese del settore hanno poi sponsorizzato in molte città la realizzazione di nuovi parchi giochi. Le catene di «fast food» hanno poi cominciato a proporre anche insalate e altri cibi a basso contenuto calorico, mentre ai bambini si cercano di offrire «happy meal» nei quali le patatine fritte sono sostituite da frutta affettata e caramellata. Qualcuno ora indica nel menù il contenuto calorico dei piatti offerti. Sono tutti passi verso la costruzione (o ricostruzione) di una coscienza alimentare, ma sono piccoli passi, rispetto alle dimensioni del problema. Per questo a Los Angeles ora vogliono adottare misure più drastiche: «Limitare i "fast food" non è di per sé una soluzione» riconosce Mark Vallkianatos, direttore del Center for Food and Justice dell’Occidental College, «ma è un pezzo del puzzle».
L’amministrazione cittadina ha, infatti, varato un sistema di incentivi per spingere gli empori agli angoli delle strade a vendere più frutta e verdura e sta cercando di favorire l’apertura di trattorie tradizionali anche nei quartieri meno ricchi della città. Misure che per l’America liberista hanno il sapore della pianificazione e del dirigismo. Gli assessori di Los Angeles South replicano che quello di garantire piena libertà di scelta al cittadino-consumatore è un principio senz’altro valido che però, nel loro distretto, è di fatto limitato, oltre che dall’esiguità del reddito, dal fatto che quelli che vogliono evitare la ristorazione industriale devono prendere l’auto (se ce l’hanno) e percorrere le 10-15 miglia che li separano dalle trattorie di Long Beach o Santa Monica.
Massimo Gaggi
17 settembre 2007